martedì 17 aprile 2012

Teorema Demi

Una donna che sposa un ragazzo molto più giovane di lei, fa prima a suicidarsi con una tisana al cianuro. Se poi lo sposo in questione è belloccio e fa l'attore a Hollywood, consiglio un metodo ancora più veloce ed efficace: le foto di Giuliano Ferrara nudo. Tutta la mia solidarietà a Demi Moore. Però figlia mia, pure tu... avessi sposato Mark Zuckemberg, posso capire: molto giovane, molto ricco, ma anche molto brutto. Con lui ce la potevi fare, insomma. Ma quel Marcantonio lì, come pretendevi di conservartelo? A colpi di botox e piastra per capelli? Un po' poco, mi spiace. Per un marito come quello ci voleva un kit speciale: manette antifuga, nastro adesivo antiurlo e video di Rosy Bindi antitestosterone. Tu mi dirai "ma questo sarebbe stato un rapimento, non un matrimonio". Credimi Demi, del matrimonio esistono definizioni peggiori. Stare con uno così giovane e così bello richiede un prezzo troppo alto. A parte la chirurgia plastica, e vabbè, ma vogliamo parlare del doversi impernacchiare ogni giorno come una liceale? E la palestra, la dieta, la biancheria intima...no per carità. E poi che fai, se ti viene il colpo della strega (che passati i quaranta è pure normale) mica glie lo puoi dire al tuo baby marito superfusto? "Che c'è Demi, perchè cammini a 90 gradi?" "Emh...niente Ashton, sto cercando il mio orecchino di Hello Kitty". Dopo i quaranta la vista comincia a calare, come la metti con il menù al ristorante? Indichi col dito? "Prendo questo, questo e questo". E il cameriere ti porta Coca Cola per primo, Fanta per secondo e Sprite per contorno. Meno male che vi siete lasciati prima della menopausa, senti a me, sennò per simulare il ciclo ti toccava giustiziare un criceto al mese. E poi con chi si è andato a fidanzare quel lestofante? con una cantante poco più che ventenne. Ma mica con Adele e con i suoi venti chili di troppo. Mica con Lady Gaga e il suo nasone. No. Si è messo con Rihanna. Una pantera che nemmeno se le fai un'autopsia le trovi un difetto. Ci vogliamo meravigliare che la povera Demi sia finita in ospedale? Io mi meraviglio che non sia finita al cimitero. Io dico così, cara Demi: non sei mai stata una grande attrice, ma sei sempre una donna. E noi donne la parte la sappiamo fare. Riprenditi un po', tagliati quei capelli che Pochaontas non si porta più, a questo punto datti un'altra mano di botox sennò lì crolla tutto, metti qualche chilo che le mazze sono buone solo a prendere le giacche dai guardaroba, e cambia target. Il mondo è strapieno di settantenni. Puntane uno, chiedigli il 740, la cartella clinica e sposatelo. Sarai sempre meno flaccida e meno presbite di lui. Se poi ti va proprio bene, nell'arco di qualche anno sarai anche meno defunta di lui. A conclusione, cara Demi, se i bei giovanotti a disposizione delle signore li chiamano toyboy, c'è un motivo: sono giocattoli, non mariti!

A volte ritornano...

Ho scoperto quasi per caso che il mio blog non aveva semplicemente dei lettori, ma dei veri fans. Pochi ma veri. L'ho scoperto grazie agli incoraggiamenti di amici e conoscenti che continuavano a invocare nuovi post, ma l'ho scoperto soprattutto grazie a persone mai incontrate in vita mia, che incredibilmente si erano affezionate a "Lindaluna". Eccomi qui. Non importa quanti siate e quanti diventerete...questo blog è per voi.

lunedì 11 ottobre 2010

Ex and the Crisi

Penso che “crisi” sia una delle parole più pronunciate dell’anno in corso. E temo lo sarà anche del prossimo. Ma già prima di Madoff, della Bolla e di Tremonti questa parola era tristemente nota all’universo single-femminile come “Crisi dei Trent’anni”, che ricorda un po’ la Guerra dei Trent’anni, con la differenza che non sempre si conclude con una Pace di Westfalia.
Mettiamo subito in chiaro le cose perché già mi pare di sentire un soffuso cicaleccio di protesta: molte trentenni sono felicemente single e tali vogliono rimanere. Ok?
Ma diciamoci la verità: per una che si gode la vita, ce ne sono dieci che allo scoccare del terzo decennio mettono la ragione sott’aceto e cominciano ad agire come se avessero in testa un lampascione.
Le più sconcertanti sono quelle che, colte da una specie di horror vacui, cominciano a ravanare numeri di telefono tre le pagine dei vecchi diari scolastici e delle agendine preistoriche nella speranza di riagguantare un ex.

“Se gli piacevo allora, magari gli piaccio anche adesso!”
“Provaci pure. Ma faresti bene ad avvertirlo che hai messo su qualche chilo.”
“Santo cielo, avevo dieci anni, non si aspetterà mica che io porti ancora la 36?”
“No. Ma nemmeno la 56.”


“Scusa ma Alberico non lo avevi lasciato tu perché rubava nei supermercati?”
“Ma quelle erano sciocchezze! Oggi è un politico affermato.”
“Chissà perché la cosa non mi stupisce.”
“Fui frettolosa a lasciarlo per quel San Daniele nascosto sotto l’impermeabile.”
“Già.”
“Fosse stato un Parmacotto l’avrei perdonato. Ma un San Daniele intero mi parve davvero troppo.”
“Ma tu guarda. Bastava il prosciutto giusto e oggi eri first lady.”


“Non capisco perché ti sei messa in testa di ricontattare Olimpio. Non è già sposato?”
“Lo è. Con una donna obesa che fuma tre pacchetti di sigarette al giorno. Secondo le statistiche dovrebbe tirare le cuoia a breve. Meglio se mi porto avanti col lavoro.”


Una volta un uomo di mia conoscenza ricevette una strana telefonata da una vecchia ex:
“Hei! Da quanto tempo! Ma che piacere sentirti… Come te la passi?”
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“Ah sei tornata qui? Non vivi più a Milano? E il tuo fidanzato?”
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“Caspita, mi dispiace. E quando è finita?”
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“Ma tu vedi che razza di cretino. Mi dispiace davvero… Sarebbe carino organizzare una rimpatriata con tutto il gruppo…”
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“Sì, scusa, hai ragione, ma non posso parlare a voce più alta perché mio figlio sta dormendo...”
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“Io sì, sono sposato e ho un bambino di un anno.”
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“Va…va bene, allora a risentir…pronto? Pronto?”


Emblematico il caso della mia ex-collega Titti.
Pur non essendo particolarmente sgradevole, la ragazza (diciamo così) a trentacinque anni suonati non aveva uno straccio di fidanzato. E mostrava tutti i sintomi della trentennite acuta.
Aveva un ecoscandaglio incorporato sempre acceso e se andavi in centro di sabato mattina, avresti certamente notato un periscopio che svettava sulla folla: era lei che faceva la solita ronda settimanale.
Purtroppo l’ufficio non offriva grandi opportunità. Eravamo tutte donne a parte il capo, fermo allo stadio Australopithecus, con scarse possibilità di morire Sapiens.
Caso volle che Titti rincontrasse proprio sul lavoro il suo ex delle scuole medie: Achille, il corriere che ci consegnava i pacchi. Lei minimizzò su quel trascorso.
“Non mi ci fate pensare. Che schifo! Solo a tredici anni si prendono certi abbagli.”
E invece non era male Achille. Aveva un evidente problema con l’acqua e il sapone, ma a parte questo… forse aveva anche paura delle forbicine per le unghie, ma insomma a parte questo… beh, probabilmente era allergico allo shampoo, ma a parte questo… sì, soffriva di aerofagia flatulente ma a parte questo…
E poi era un bravo ragazzo. È vero che gli chiedevamo di lasciare i pacchi sullo zerbino e di passarci la bolla di consegna sotto la porta, ma a parte questo eravamo affezionate a lui.
Tutte noi tranne Titti che se era costretta ad aprirgli la porta lo faceva turandosi platealmente il naso.
Achille non sembrava per nulla offeso, anzi si prodigava affinché fosse chiaro che lui se la sarebbe ripresa, la sua velona.
Intanto il tempo passava e Titti era più single del Padreterno.
A nulla servivano le scollature che si abbassavano, i tacchi che si alzavano, i jeans che si stringevano e il contorno labbra che si allargava.
L’unico che apprezzava le forme e le s-labbra di Titti era Achille.

“Che bel rossetto che c’hai stamattina Titti.”
“E’ lucidalabbra e chiamami dottoressa, fetido.”

“Titti non ti sembra di esagerare? Poverino, che ti ha fatto?”
“Mi fa schifo.”
“Titti, però se fai così…”
“…fai afflosciare pure un Pampax.”
“Buongiorno capo.”
“Si dice Tampax. E comunque lo sa che questa è una molestia sessuale bella e buona?”
“Una che?”
“Una molestia sessuale!”
“Boh. Io sono un tipo modesto. Ma a te non ti sessuerei manco morto.”


Chissà, forse la profondità di questa osservazione, forse un orologio biologico più grosso del Big Bang, fatto sta che Titti rivalutò la situazione.
Quantomeno questa fu la conclusione cui giunsi dopo averla vista annodarsi ad Achille come una pitonessa nell’oscurità di una sala cinematografica.
Il giorno dopo affrontammo l’argomento in pausa pranzo.
“Complimenti Titti. Achille è un bravo ragazzo. E…un gran lavoratore. E…molto simpatico anche. Ed è…è..”
“Taglia corto. Achille è un sudicio puzzone.”
“Ma…tu…tu…”
“Io cosa?”
“Tu ieri sera ci stavi appiccicata come una figurina Panini!”
“Lo so. Ci siamo rifidanzati. E probabilmente me lo sposerò quel quarto di gorgonzola.”
“Ma… ”
“La crisi è crisi.”
“Questo è vero.”
“E comunque ogni scarpa diventa scarpone.”
“Già. Ed è meglio un uovo oggi che una gallina domani.”
“Esatto. E a caval donato non si guarda in bocca.”
“Concordo. E chi si accontenta gode.”
“Perfetto. E non è bello ciò che è bello, ma è bello ciò che piace.”
“Giusto. E non far sapere al contadino quant’è buono il formaggio con le pere.”
“?”
“Questa non c’entra. Scusa”

Titti aveva ragione. In tempo di crisi non si butta via niente. L’altro giorno ho visto un programma tv in cui una signorina mostrava come riciclare vecchia roba facendone oggetti da arredo.
Santo cielo, se quella criminale ha avuto il fegato di trasformare un microonde rotto in una fioriera …vuoi vedere che da un ex fidanzato puzzolente non ci si può ricavare un marito di prima mano?

venerdì 1 ottobre 2010

Il degente

In giro ce ne sono tanti, ma si nascondono molto bene, per cui è difficile individuarli.
Sto parlando di una specie molto ma molto pericolosa per noi donne: i degenti.
Il dizionario italiano definisce degente chi “per malattia o altro incidente è costretto a rimanere a letto o è ricoverato in un luogo di cura”.
Io invece la vedo così: il degente è quel bipede che alla prima occasione ti arroventa le orecchie e ti stira il cervello con i dettagli sulla sua ultima dolorosissima storia d’amore.
Facciamo però le dovute distinzioni: c’è chi soffre sul serio e chi soffre a comando.
Il primo è un degente autentico. Sta male davvero e se esce con voi è solo perché ormai anche il suo criceto si infila i tappi nelle orecchie appena lo vede arrivare.
Se pensate che la “sindrome della crocerossina” colpisca solo le altre donne, allora usciteci pure. Ma risparmiatevi il parrucchiere, l’estetista e il perizoma di strass. Soldi buttati. Non dimenticate però un plaid e dei viveri. I discorsi di un uomo che soffre per amore sono più lunghi e noiosi del Decalogo di Kieslowski. E comunque piuttosto che un degente, vi consiglio di adottare un monumento. Più utile e soddisfacente.
Se poi nutrite la segreta speranza di avviare una relazione con un tipo così malmesso, io vi suggerisco caldamente un mese di volontariato a Calcutta.
Parlo per esperienza diretta.
Molti anni fa mi invaghii di in un degente quasi pronto per l’obitorio.
Era estate e lui faceva il cameriere in un piano bar. Ogni sera aspettavo pazientemente che finisse il turno per sedermi a tavolino con lui e spararmi in vena tutti i particolari della tragica storia d’amore con Viviana, la sua ex.
Anche un cardellino avrebbe capito che il tizio aveva un elettroencefalogramma quasi piatto. Invece io contavo di ridurre Viviana ad un lontano ricordo in un paio di sedute.
Ma a Ferragosto stavamo ancora a “quella volta in cui io la portai a Venezia per il suo compleanno, e la stronza si mise a flirtare con il gondoliere.”
Quando l’estate volgeva al termine, la degente ero io. In posizione obliqua sulla sedia, ero collegata ad un boccettone di Negroni tramite cannuccia chilometrica, mi limitavo ad annuire di tanto in tanto e contemporaneamente tiravo su un po’ di liquido. Una sera decisi di saltare la seduta. Non ce la facevo più. La sera successiva lo trovai in stato larvale.
“Hei, che hai?”
“Ieri non sei venuta…io ti aspettavo…sono stato male senza di te.”
Ueilà, si muove qualcosa. Finalmente!
“Mi dispiace…è che non stavo bene, ma adesso è tutto ok. Però… sono felice che tu abbia sentito la mia mancanza…”
“Già. Bene. Dove eravamo rimasti?”
“Ah…uhm…a quella volta che tu chiedesti a Viviana chi avrebbe gettato giù dalla torre se te o il suo pechinese e lei rispose che ci doveva pensare.”
“Ah sì! Ma ti rendi conto?! - Ci devo pensare - Come se io e quel ratto peloso fossimo sullo stesso piano! E non ti ho ancora raccontato di quella volta che…”
“Scusa un attimo, ti dispiace se prima ordino il solito?”
…tanto è l’ultimo. Sono sicura che la sta dimenticando. Sento che si sta affezionando a me.
“Ma figurati, faccio io. Anselmo! Anselmoooo!! Porta un Negroni per…per…scusa, com’è che ti chiami?”


La seconda categoria, quella dei malati immaginari, è molto più pericolosa e infida.
Ci sono uomini che scoppiano di salute e testosterone. Ma appena gli chiedi qualcosa di più concreto li vedi impallidire, balbettare, tremare, e se necessario anche piangere.
“Oddio…cos’hai? Non ti senti bene? Santo cielo, ti ho chiesto di accompagnarmi al matrimonio di mia cugina, mica a Mauthausen!”
“No…è che… sai…ti ho mai parlato di Lara?”
“No.”
“Il fatto è che Lara è ancora una ferita aperta.”
Tra un po’ te la apro io una ferita in fronte.
“Lei…lei…oddio….”
Singhiozzo convulso.
“Parlarne è troppo doloroso per me… non so se ce la faccio.”
“Ce la fai, ce la fai…”
“No…io non ce la..”
“CE LA FAI.”
“La…Lara era la mia ex. Ci dovevamo sposare, ma un giorno lei se ne è andata senza una spiegazione. E io da allora soffro. Soffro maledettamente.”
“Non mi pareva che stanotte soffrissi tanto. E comunque pazienza, verrai sofferente.”
“Io… non ce la faccio, soprattutto ai matrimoni non ce la faccio. Ti rovinerei la festa.”
“Sarà rovinata se finirò seduta al tavolo Mughetto.”
“Cosa?”
“Il tavolo delle cugine single. Tu verrai con me e siederemo al tavolo Orchidea, quello delle cugine accoppiate.”
“Ough! Couf Couf…No…ti prego, sto troppo male. Il ricordo di Sara mi affligge.”
“Non si chiamava Lara?”
“Ah sì! Certo, Lara. Lara, sì.”
“Senti, per me puoi anche venire con una flebo infilata nel braccio. Ma siederai con me al tavolo Orchidea.”
“Tu non capisci, io ho rasentato il suicidio per Mara!”
“Lara.”
“Ah…sì. Lara, Lara.”
“Forse non hai capito, io a quel matrimonio ci devo andare accompagnata, anche da un cadavere se necessario.”
“Mi dispiace ma non credo che reggerei…”
“Stammi a sentire, lurido pezzo di letame avariato: a Lara, Sara e Mara aggiungici anche una BARA.”
“Ba..Bara?”
“Sì, BARA. È il nome del monolocale in cui passerai il tuo futuro se non verrai con me a quel cazzo di matrimonio e non incollerai il tuo culo a quella fottuta sedia di quel fottuto tavolo Orchidea. Chiaro?”

Il degente sarà pure pericoloso, ma con una donna che rischia il tavolo Mughetto, non c’è partita.

martedì 28 settembre 2010

L'abito fa l'ex

Uno dei tanti motivi per cui prima o poi qualcuno farà saltare in aria Facebook sono le vecchie foto di classe perfidamente scansionate e pubblicate con tanto di nome e cognome che aleggia sull’alunno.
Passi che mi si pubblica con il rigagnolo di ragù sul mento, con la pancia che fugge dalla maglietta, con gli occhi bianchi da posseduta, passi pure quella foto in cui unendo i puntini sulla mia faccia comparirà una sega elettrica, ma il primo che si permette di pubblicare quella foto di classe del liceo in cui ho la frangetta cotonata, io lo denuncio.
Anche se infondo in quella foto c’è una cosa ancor più sconcertante della mia frangetta: l’abbigliamento dei ragazzi.
Ai miei tempi c’erano essenzialmente due scuole di pensiero: “io sono un paninaro e “se la vede mia mamma”.
La prima produceva pupazzi con felpette bombate, jeans a metà polpaccio e calzettoni a rombi. Per fortuna la specie si è estinta in un paio di stagioni.
L’altra corrente invece fabbricava mostri di varia natura: “figlio di madre che si crede furba e acquista capi taroccati” (nella foto il poveraccio indossa una cintura dalla fibbia grossa come un vassoio con su scritto “El Ciato” e una felpa slabbrata della “Cess Company”)
Immancabile il “figlio di madre attempata” magari anche vedova: camicia di flanella a quadretti, golfino a trecce grigio e pantalone marrone di velluto a coste, pure a maggio.
Più raro ma esistente il “figlio di madre politicamente schierata”: tuta da metalmeccanico e borsa verde militare a tracolla.
La categoria più simpatica era “figlio di madre che dice al figlio di arrangiarsi”.
Da loro ti potevi aspettare di tutto. Uno di questi un giorno venne a scuola con una casacca da karate. Alla professoressa sconcertata spiegò che era l’unica cosa pulita trovata nell’armadio.


La differenza principale con i ragazzi di adesso era l’esiguità del guardaroba. I miei compagni di classe avevano due cambiate per l’inverno e due per l’estate. Stop. Quando c’era ginnastica mettevano la tuta blu con le strisce bianche di lato. Stop. Alle feste indossavano una camicia. Sempre la stessa. Stop.
Noi ragazze eravamo molto sensibili alla natura delle due cambiate. Se nessuna delle due ci garbava eravamo capaci di ignorarli fino al cambio di stagione. E se la mamma toppava ancora, se ne parlava a settembre.

Questa attenzione per l’abbigliamento maschile non finì con la scuola. Anzi. Non sono mai stata una “fashion victim”. E come me gran parte delle mie amiche. Non eravamo alla ricerca del griffato. Ma c’erano dei scivoloni imperdonabili. Qualche esempio:
- Tris infame (jeans, camicia di jeans e giubbino di jeans indossati contemporaneamente)
- Maglione a pelo (indossato senza niente sotto).
- Polo ficcata nei pantaloni senza cintura.
- T-shirt una taglia in meno. (Si accettavano eccezioni per pallanuotisti).
- Calzino di spugna bianca con scarpa classica.
- Calzino di filo nero con scarpa da ginnastica.
- Camicia dell’impiccato (abbottonata fino all’ultimo bottone)
- Abbinamento luciferino (“di rosa e celeste solo il diavolo si veste”)
- Abbinamento levasaluto (nero e blu)
- Abbinamento Picasso (scacchi e fiori, righe e rombi, pois e losanghe)



Per la giacca la regola era semplice: se il colore faceva pensare ad un frutto…era out.
Niente rosso fragola, niente rosa pesca, niente giallo banana o limone, niente verde mela, niente viola prugna.
Poi certo, dipendeva molto dalla persona. L’originalità era ben accetta, ma con le dovute cautele.
Una mia amica lasciò il suo neofidanzato molto figo dopo soli quattro giorni quando anche il quarto lui si presentò con una maglietta recante l’iscrizione “Woytila il Papa del Duemila”.
Embè. Il primo giorno sei originale, il secondo giorno sei simpatico, il terzo giorno sei devoto, il quarto giorno sei zozzo.

Più in là negli anni decisi che era ora di smetterla con queste fissazioni perché l’abito non fa il monaco. Mi sbagliavo. L’abito fa il monaco, e pure l’ex.

Al primo appuntamento uno dei miei ex mi invitò su a casa sua per ammirare il suo guardaroba.
Una strana variante della collezione di farfalle, pensai.
“È un pezzo d’antiquariato? Guarda, io non è che ne capisca…”
“Non parlavo dell’armadio, mi riferivo ai miei vestiti.”
Mai sentita una scusa più strana. Infatti non era una scusa.
Quante volte mi sarei chiesta perchè non lo piantai nel corso di quella agghiacciante sfilata!
Bah. Sarà stata la naftalina ad occludermi i connettori cerebrali.
L’ex-emplare pensò bene di iniziare con le giacche. Altro che regola della frutta. Pareva un mercatino rionale. Ne tirò fuori una rosso anguria che fu proprio come ricevere una cocomerata in faccia. La più sobria era perfetta per la Muccassassina.
“Aspetta qui, il prossimo me lo devi vedere addosso. Vado a cambiarmi.”
Ricomparve in un gessato nero a righini rossi che mi fece lacrimare.
“Non è che per caso c’erano abbinati anche gli occhialini in 3D per chi ti sta di fronte?”
Non capì, era troppo eccitato all’idea dell’esibizione delle cravatte. Pensavo scherzasse quando tirò fuori tutta la linea Disney.
E invece disse serissimo: “Ecco vedi, questa rossa con i dalmata io l’abbino sempre a questo gessato”. Mi assalì la visione dei cagnolini in fuga di massa dalla cravatta.
Continuava a nominare stilisti famosi, Valentino, Fendi, Ferrè, Ferragamo. E io non potevo credere ai miei occhi. In quell’armadio c’erano tutti gli sfondoni dei colossi della moda.
Poi venne la volta delle camicie: ne ricordo una nera con zampata di tigrato in diagonale.
“Roberto Cavalli” sottolineò fiero.
Signor Cavalli, io l’ammiro, ma l’animalier da uomo non fa troppo paleolitico?
Infine tirò fuori il pezzo cult: un lungo cappotto azzurro.
“Oh. Bene. Quest’inverno mi toccherà passeggiare con Mago Merlino.”
Questa la capì e la prese malissimo.
Per riabilitarsi tirò fuori il suo ultimo acquisto: un soprabito firmato da quel maniaco delle carte geografiche. Sembrava il mappamondo gigante del Louvre.
Signor Alviero Martini, lei dopo una certa taglia, dovrebbe impedire la produzione.
Quando pensavo fosse finita, lui con gli occhi luccicanti annunciò il gran botto:
“E questo è il mio preferito, ma lo metto solo in certe occasioni”. Era un completo camicia e pantalone in seta lavata viola. I bottoni della camicia partivano all’altezza dello stomaco.
“Ah. E… in quali occasioni te lo metti questo?”
Meglio saperlo prima.
“Solo per i concerti di Renato Zero.”
“Ma non mi dire. Sei un sorcino…”
“Caspita, non me ne perdo uno.”
Renato ti prego, hai un’età, è ora di smettere. Poi i giornali scrivono “avvistata melanzana gigante al concerto di Renato Zero” e tu ci resti male.
“Vuoi vedere come mi sta?”
“NO! No…pare delicato, finisce che si rovina.”
Quando ci lasciammo, lui mi chiese se volevo uno dei suoi capi per ricordo. Io chiesi il completo da sorcione. Volevo liberare il mondo da quella calamità. Ma lui non volle.
“Quello no, mi dispiace. Però ti darei volentieri la cravatta con Crudelia Demon”.


Concludo con il caso più sconcertante. Uno dei miei ex a trent’anni non aveva ancora deciso se essere un bambino di Satana o un figlio di mammà.
Una volta lo vidi arrivare con i pantaloni in pelle nera e mi dissi “Finalmente ha deciso.”
Poi si piegò e gli vidi spuntare le mutande dei Teletubbies dalla cintura.
“No. Non ancora”.
Quando avvistai una maglietta della salute sotto la t-shirt di Marylin Manson, accusai un malore.
Ad una festa indossò una camicia nera molto trendy, un jeans attillato un po’ sdrucito, molto cool. E ai piedi un paio di Kickers. Sì, lo so. Anche io pensavo che oltre il 35 non le facessero.
“Mia madre dice che il piede deve stare comodo.”
Certo, soprattutto quando si muovono i primi passi.
In inverno portava un soprabito nero molto “cattivo”. Ma se si alzava il vento tirava fuori dalla tasca un cappello di lana scozzese, di quelli con la visiera ed i paraorecchie.
"Da piccolo ho avuto una brutta otite e non voglio rischiare".
Ho capito ma così rischia chi ti sta vicino!
Non saprei dire cosa sembrasse. Non lo so, un vecchio giocatore di baseball scappato da un manicomio criminale, il primo della classe in preda ad un raptus omicida, un allevatore di camosci trapiantato a Manhattan…non lo so. Comunque era un ibrido spaventoso.
Appena lo vedevo infilarsi il berretto in testa, dentro di me sentivo una vocina che mi suggeriva:
“Fuggi!”
Quando ci lasciammo, ad un bel momento le cose si misero sul difficile.
“Sette giorni, ti prego, solo sette giorni ti chiedo!”
“Ma…a che pro?”
“In sette giorni possono succedere tante cose!”
“Mah…non credo…”
“Certo che sì! Dio in sette giorni ha creato il mondo intero!”
“Non è che siete proprio la stessa cosa…”
“Non scherzare, dico sul serio. Ti chiedo una sola settimana della tua vita! Ti supplico. Oggi è…aspetta oggi è…”
Sollevò un po’ la gamba dei jeans, lesse qualcosa sul bordo del calzino di Dragon Ball e concluse:
“Giovedì. Oggi è giovedì!”
“Ma…?!”
“C’è scritto qui. Mia madre me ne ha comprato sette paia, uno per ogni giorno della settimana. Li trovo comodissimi perché mi sfugge sempre che giorno è.”
Oddio…
“Dicevo, in questi sette giorni tu vedrai il meglio di me. Dammi questa possibilità, per favore. Ti farò vedere che alla fine di questa settimana tu mi amerai di nuovo.”
Sì vabbè, la sfida all’ultimo calzino.
Colta dalla stanchezza stavo quasi per prendere in considerazione la richiesta.
Ma all’improvviso, freddo e pungente si alzò il vento. E la decisione fu presa.
Il cappellaio matto si mise ad urlare:
“Hei! Dove vai? E la nostra ultima settimana insieme? Ti prego! Quando ti rivedròòòòòòò?”
“Non lo soooooo. Vedi un po’ cosa dice Dragonboooooooooooooool"

venerdì 3 settembre 2010

ex gonfiabile

Ho dovuto rileggere l'articolo due volte. Ma avevo letto bene la prima: se proprio non riuscite a dimenticare il vostro ex, esiste una ditta che ve lo riproduce in versione gonfiabile. Basta che forniate una foto e specifichiate misure corporee del dipartito.
Sono senza parole. Ma sento che sto per trovarle.

Personalmente preferirei avere in casa l'esercito delle dodici scimmie piuttosto che un gonfiabile con la faccia di un mio ex. Oddio, forse un paio di miei ex in versione mongolfiera sarebbero un ottimo antifurto e un perfetto antiacari. Se fossi un ladro mi spaventerei a morte nel trovarmeli davanti. E anche se fossi un acaro.

Ma pare che ci siano già molte richieste. Beh, mi rivolgo proprio a coloro che sono in lista d'attesa: no, dico, cosa c'avete in testa? L'uragano Katrina?
Cosa diamine ci fate con un ex gonfiabile? Ci andate insieme allo stadio? Al cinema? Al ristorante vietnamita? Oppure gli fate il bagnetto dentro Fontana di Trevi e lo alimentate con una tanica di latte aspettando che gli esca dal foro posteriore?
Non potete nemmeno prenderlo a botte per vendicarvi del benservito. Dovesse scoppiarvi tra le mani, sappiate che non è in garanzia.
Signori, di più inutile di un ex, c'è solo un ex gonfiabile.

Lo sapete che con un simile arredo in giro per casa perdete ogni speranza di avere una nuova relazione? Non solo di tipo amoroso, ma di qualsiasi tipo.
Nemmeno il vostro migliore amico vorrà condividere il divano con un canotto a forma di ex. Persino la donna delle pulizie vi chiederà la liquidazione. Il vostro cane inoltrerà domanda d'adozione ai vicini, i pesci rossi si suicideranno nell'acqua per la pasta e il furetto se la filerà su per la canna del gas.

Ascoltate il mio consiglio, disdite l'ordine finchè siete in tempo. L'ex gonfiabile non è altro che una meschina idea di chi vuole speculare sulla nostalgia.
Con gli stessi soldi, fatevi una bella vacanza in Lapponia, regalatevi un abbonamento alla Gazzetta dei Puffi, che ne so, adottate a distanza un impiegato giapponese.
E se proprio avete il debole per i gonfiabili, ne esistono di più economici e meno inquietanti: li trovate nei negozi di giocattoli in versione Teletubbies, Spiderman ed Hello Kitty.
Se ormai è troppo tardi per disdire, cerchiamo insieme una soluzione.
Alle donne consiglio di riciclarlo come passeggero in auto quando tornano a casa da sole la notte. Può essere comodo anche come sfollagente: adagiatelo con coperta scozzese e occhiali scuri su una sedia a rotelle e vedrete come vi cederanno il passo al supermercato, in banca o alle poste.


Agli uomini suggerisco di utilizzare la bambola come materassino per prendere il sole al mare. Le signorine sulla spiaggia penseranno che siate un abile amatore alle prese con piccanti evoluzioni subacquee.
O magari fate così: organizzate il "Primo raduno di ex gonfiabili", recatevici con il vostro acquisto, lasciatelo libero di socializzare con i suoi simili, e voi fate lo stesso con i vostri. Vedrete che qualcosa verrà fuori.

Ma c'è un modo più intelligente per liberarsi dell'acquisto avventato e, contemporaneamente, farla pagare al responsabile dello stesso che nel frattempo se la spassa con una nuova fiamma. Introducetevi di soppiatto in casa del vostro ex - appena uscito per una cena galante - e collocate il suo clone in posizione strategica, di modo che lo veda non appena aprirà la porta d'ingresso con il suo "dopocena" sottobraccio.
Mi raccomando, prima di uscire abbiate cura di chiudere la porta del bagno a doppia mandata e gettare la chiave dalla finestra.
Non appena l'infido e la sua dolce compagnia si troveranno faccia a faccia con il sosia gonfiabile, ad entrambi monterà un cagotto vulcanico. E, non potendo dargli dignitoso sfogo causa bagno sbarrato, si lasceranno andare sul pavimento ad un' esplosione di mutande un po'diversa da quella che avevano programmato.

Ecco, a questo punto i vostri soldi saranno stati non proprio ben spesi, ma almeno non gettati.
E mi raccomando, la prossima volta che vi verrà in mente un'idea simile, fate un salto su questo blog che gli ex li distrugge, non li riproduce.

mercoledì 11 agosto 2010

Ex di stagione

Come insegnano gli assassini dietro le sbarre, tornare sul luogo del delitto non è mai una buona idea. Ma lo si capisce sempre dopo.
Purtroppo le località di villeggiatura dove si sono trascorse adolescenza e gioventù, brulicano di ex più che di zanzare. Questo è un dato di fatto con cui faccio i conti ogni estate.

La settimana scorsa ero in spiaggia quando vedo avanzare verso di me un tipo dinoccolato sulla quarantina, stempiato e smilzo, con degli occhiali da sole che faccio fatica a descrivere: enormi, di plastica gialla e con una specie di grata al posto delle lenti.
“Bellissima, come stai?”
Ce l’ha con me??
“Ehmm… bene.”
Sì, ce l’ha con me e mi sta anche un po’ troppo vicino. Santo cielo…sono stata intima con questo personaggio!
“Benissimo direi. Hihi. Ti aspettavo, sai? Però speravo mi chiamassi appena arrivata. Da quanto sei qui?”
Hihi?!?!
“Qualche… giorno...”
Forse a quel pareo-party… o a quel gavettone-party…no…no, certamente a quel sangria-party…
“Senti, stasera qui c’è un falò, ci andiamo insieme? Ci siamo sempre divertiti ai falò. Hihi..”
“Ah sì…?”
Falò? Allora è roba preistorica.
“Dai che mi fa piacere. Beviamo qualcosa, parliamo un po’ dei vecchi tempi e… hihi…”
Trovo sempre più agghiacciante che questo tizio con due radiatori sugli occhi abbia motivo di fare “hihi”nella mia direzione.
“Tanto lo so che per convincerti bisogna insistere parecchio, ma che poi alla fine cedi…hihi”
Al prossimo hihi ti stampo un cazzotto sul naso.
“Io veramente…”
“Facciamo così: ti fai bella, ti infili uno dei tuoi vestitini rosa e mi raggiungi qui. Io porto la chitarra e ti faccio un po’ Baglioni.”
L’ultimo vestitino rosa l’ho messo che avevo sei mesi. E a Baglioni preferisco una messa cantata. Qualcosa non quadra.
“Adesso vado. Guarda Ketty che ci conto sul serio.”
“Ketty!?”
“Posso sempre chiamarti così, vero? Caterina è troppo lungo e poi mi ricorda mia zia, lo sai.”
Non so chi sia Ketty o Caterina, ma non sono io, e questa è l’unica cosa che conta. Quest’imbecille mi ha scambiata per una sua ex. Per forza. Cammina con le veneziane in faccia!!
“Sì sì figurati. Chiamami come vuoi.”
“Magari più tardi ti faccio uno squillo.”
“Come no.”
Squilla, squilla.
Hihi.

Il giorno successivo invece sono stata io a riconoscere un mio ex sul bagnasciuga. Ex per modo di dire. Quelli estivi si sa, durano meno di un ghiacciolo al sole.
Appena mi ha vista, è sbalzato dalla sdraio come se gli fosse esploso un petardo nel costume.
“Hei! Oi! Uè!”
“Ciao…”
“Che ci fai qui?”
“Ci vengo in vacanza, come ogni…”
Al che si è guardato intorno furtivo, si è lanciato in acqua con tuffo a zeppola e si è allontanato verso il largo a forza di bracciate a mulinello.”
“…anno. Bah!”
Poi ho capito. Dopo un paio d’ore stavo tornando verso casa quando ho visto nel parcheggio un bestione in bikini due metri per tre che abbaiava contro una montagna ambulante di lettini, ombrellone, sdraio, canotto, asciugamani e borsa frigo.
“Tu non ci devi andare al bar hai capito? Al bar ci vado io e te lo compro io il Cucciolone! Quel bar è pieno di cretine col culo da fuori! Te l’ho detto mille volte! La prossima volta che ti becco lì ti stacco la testa!”
Il paguro a rischio decapitazione era il mio ex-ghiacciolo. E quel diavolo della Tazmania, sua moglie.
Felicitazioni!

Qualche giorno dopo mi sono imbattuta in un altro ex, sempre categoria ghiaccioli, che faceva il bagno insieme a un bambino sui quattro anni. Appena mi ha visto, l’ex-emplare ha dato le spalle al piccolo, si è lisciato i (pochi) capelli all’indietro e si è messo in posa casual-sirenetto.
“Ciao cara.”
“Hei! Ciao! Santo cielo hai un bambino?!”
“Bambino? Quale bambino?”
“Quello…non è tuo figlio?”
“No, no…”
“Ma come? È il tuo clone!”
“Sì… perché è mio nipote, è il figlio di mia sorella.”
“Che a occhio e croce adesso ha sedici anni…”
“Eh…sì, te lo ricordi eh, beh sì. Ha fatto il guaio.”
“Caspita. Beh, però un guaio molto carino.”
Orgoglio sospetto nel suo sguardo, prontamente sostituito da un’occhiata maliziosa.
“E tu? Sei single, fidanzata, sposata, convivi?”
“Io son…”
“PAPA’ PAPA’! GUARDA COME FACCIO I RUTTI SOTT’ACQUA!”
“?”
“Eh eh…sai com’è, gli faccio un po’ da padre. Il suo praticamente non lo vede mai…Guido non si fa!”
“Ho capito. Certo che ti somiglia proprio tant…”
“PAPA’ PAPA’! GUARDA COME FACCIO LE PUZZETTE SOTT’ACQUA CON LE BOLLE!”
“Oddio…eh eh… questi bambini…Guido finiscila!”
“MA TU LE FAI SEMPRE!”
Allora è suo figlio. Senza dubbio.
“Ma che dici, Guido…eh eh. Hem.”
“Ok, è stato un piacere. Complimenti… zio. È un bel bambino.”
“No aspetta! Stasera la mia ex-moglie viene a prenderlo, quindi ho la serata libera…”
“La tua ex moglie, cioè la sua ex zia acquisita?”
“Hem, sì. Sono molto affezionati.”
“Ma che bello. Beh. Salutami tanto tua sorella, eh. Ciao ciao.”
“Volevo dire che mia sorella e sua zia, cioè no, la mia ex moglie e sua sorella, cioè no, la mia ex-sorella e sua moglie…”
“PAPA’ PAPA’ PAPA’”
“E STATT ZITT’! Dicevo che se sei libera, potremmo…”
“Vedi che tuo figlio, scusa, tuo nipote, sta annegando.”
“Chi? Uh! Oh! GUIDO, BELL’E PAPA’, ARRIVOOOOO!”

La ballata degli ex di stagione si è conclusa con Lupino. Ex non mio, ma di Sabrina, la più gettonata tra le mie amiche d’infanzia.
Lupino è un ragazzo del posto, fa il pescatore da quando aveva tredici anni, e più o meno a quell’epoca risale la sua liason con Sabrina.
Verso le undici del mattino io e le mie amiche, Sabrina in testa, ci dirigevamo in blocco verso il porto dove Lupino scaricava il pesce dal suo gozzo, sudato e distrutto con già cinque ore di lavoro alle spalle.
Forse il poverino anelava ad un briciolo di intimità con la sua sirena, ma senza fiatare imbarcava lei e tutte noi. Una volta al largo iniziava la parata di tuffi, calate ed evoluzioni sull’acqua. Lupino era timido, non sapeva come inserirsi in quella masnada di tarantole in costume, e così stava seduto ad arrostirsi e a guardare Sabrina che si divertiva insieme a noi.
Sì perché a quei tempi e a quell’età, se volevi sfoggiare uno straccio di fidanzata, dovevi farti carico di tutte le sue amiche e ricordarti di trattarle anche molto bene. Infatti alla fine della gita, Lupino non mancava mai di regalarci un secchiello di pesce a testa.
La relazione finì quando arrivò Donatello, un pischelletto di città a cavallo un fiammante Sì Piaggio.
Sabrina e Donatello si fidanzarono, e noi passammo dal gozzo al Sì, obbligando il ragazzo a farci fare estenuanti giri in motorino una alla volta. Penso che per dare un mezzo bacetto a Sabrina, ogni giorno il poverino facesse diecimila lire di miscela. E poi la sera ci offriva valanghe di gomme da masticare e rotelle di liquirizia. Certo, il secchiello di pesce era meglio. Ma se hai tredici anni le Big Babol hanno il loro fascino.
Da allora Lupino non si è mai più ripreso. Di anno in anno Sabrina passava dai vespini alle Red Rose, dalle non carenate ai Dominator, dalle Fiat Panda alle Ford Fiesta dove iniziò a non gradire la folla di noi amiche sui sedili posteriori.
Ma non è mai più andata per mare e se oggi le nomini Lupino, ti risponde “chi?”.
Io invece a inizio estate vado sempre sul porto a salutarlo. Ma il suo argomento da circa vent’anni è sempre lo stesso.
“E Sabrina non è venuta quest’anno?”
“No, non ancora.”
“Tanto a me non mi frega niente.”
“Lo so, lo so.”
“Dice che si è fatta bionda, vero?”
“Sì.”
“Tanto a me non mi frega niente.”
“Immagino. Senti, non è che avresti per caso una bella cernia?”
“Come no. Freschissima, presa stamattina. Rovinata.”
“E’ rovinata? E allora dammi qualcos’altro.”
“Parlavo di Sabrina. Di certo stava meglio bruna.”
“Mah… è cambiata...”
“Tanto a me non mi frega niente.”
“Appunto. Che bella questa cernia, stasera mia madre fa la brace!”
“So che se la fa con brutta gente.”
“Mia madre!?”
“Sabrina!”
“Ma no…Quanto pesa?”
“A occhio e croce adesso avrà toccato i sessanta.”
“La cernia!?!”
“Ah, pensavo Sabrina! La cernia un tre chili. Meglio starne lontani. Una brutta razza.”
“Oddio, e allora prendo qualche seppia, due calamari…”
“Parlavo di Sabrina!”
“Ah...”
“Tanto a me non mi frega niente.”
“Ecco.”
“Senti, comunque dille di stare molto attenta”
“A Sabrina? Ma che fai, minacci?”
“No! A tua madre!”
“Ah…e perché?”
“La cernia è la fine del mondo solo se la sai cucinare.”
“Oh, figurati, lei lo saprà.”
“E’ sempre stata una povera scema.”
“Mia madre!?!”
“No la cernia! Cioè, volevo dire, Sabrina!”
“Vabbè dai.”
“Tanto a me non mi frega niente.”
“Uhm.”
“E’ la morte sua.”
“Ancora con le minacce?!”
“La brace! È la morte della cernia!”
“Ahhh!”
“E comunque è sempre la numero uno.”
“Sabrina?”
“No, tua madre, in cucina.”
“Mannaggia Lupì, mi stai facendo impazzire.”
“Scusa, ok, salutala da parte mia.”
“Chi? Sabrina, mia madre o la cernia!?!”
“Fai un po’ tu. Tanto a me…”
“Non ti frega niente.”

E come ogni anno, dopo una prima mangiata di ottimo pesce fresco, l’estate prosegue e si conclude con filetti di platessa findus.