lunedì 11 ottobre 2010

Ex and the Crisi

Penso che “crisi” sia una delle parole più pronunciate dell’anno in corso. E temo lo sarà anche del prossimo. Ma già prima di Madoff, della Bolla e di Tremonti questa parola era tristemente nota all’universo single-femminile come “Crisi dei Trent’anni”, che ricorda un po’ la Guerra dei Trent’anni, con la differenza che non sempre si conclude con una Pace di Westfalia.
Mettiamo subito in chiaro le cose perché già mi pare di sentire un soffuso cicaleccio di protesta: molte trentenni sono felicemente single e tali vogliono rimanere. Ok?
Ma diciamoci la verità: per una che si gode la vita, ce ne sono dieci che allo scoccare del terzo decennio mettono la ragione sott’aceto e cominciano ad agire come se avessero in testa un lampascione.
Le più sconcertanti sono quelle che, colte da una specie di horror vacui, cominciano a ravanare numeri di telefono tre le pagine dei vecchi diari scolastici e delle agendine preistoriche nella speranza di riagguantare un ex.

“Se gli piacevo allora, magari gli piaccio anche adesso!”
“Provaci pure. Ma faresti bene ad avvertirlo che hai messo su qualche chilo.”
“Santo cielo, avevo dieci anni, non si aspetterà mica che io porti ancora la 36?”
“No. Ma nemmeno la 56.”


“Scusa ma Alberico non lo avevi lasciato tu perché rubava nei supermercati?”
“Ma quelle erano sciocchezze! Oggi è un politico affermato.”
“Chissà perché la cosa non mi stupisce.”
“Fui frettolosa a lasciarlo per quel San Daniele nascosto sotto l’impermeabile.”
“Già.”
“Fosse stato un Parmacotto l’avrei perdonato. Ma un San Daniele intero mi parve davvero troppo.”
“Ma tu guarda. Bastava il prosciutto giusto e oggi eri first lady.”


“Non capisco perché ti sei messa in testa di ricontattare Olimpio. Non è già sposato?”
“Lo è. Con una donna obesa che fuma tre pacchetti di sigarette al giorno. Secondo le statistiche dovrebbe tirare le cuoia a breve. Meglio se mi porto avanti col lavoro.”


Una volta un uomo di mia conoscenza ricevette una strana telefonata da una vecchia ex:
“Hei! Da quanto tempo! Ma che piacere sentirti… Come te la passi?”
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“Ah sei tornata qui? Non vivi più a Milano? E il tuo fidanzato?”
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“Caspita, mi dispiace. E quando è finita?”
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“Ma tu vedi che razza di cretino. Mi dispiace davvero… Sarebbe carino organizzare una rimpatriata con tutto il gruppo…”
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“Sì, scusa, hai ragione, ma non posso parlare a voce più alta perché mio figlio sta dormendo...”
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“Io sì, sono sposato e ho un bambino di un anno.”
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“Va…va bene, allora a risentir…pronto? Pronto?”


Emblematico il caso della mia ex-collega Titti.
Pur non essendo particolarmente sgradevole, la ragazza (diciamo così) a trentacinque anni suonati non aveva uno straccio di fidanzato. E mostrava tutti i sintomi della trentennite acuta.
Aveva un ecoscandaglio incorporato sempre acceso e se andavi in centro di sabato mattina, avresti certamente notato un periscopio che svettava sulla folla: era lei che faceva la solita ronda settimanale.
Purtroppo l’ufficio non offriva grandi opportunità. Eravamo tutte donne a parte il capo, fermo allo stadio Australopithecus, con scarse possibilità di morire Sapiens.
Caso volle che Titti rincontrasse proprio sul lavoro il suo ex delle scuole medie: Achille, il corriere che ci consegnava i pacchi. Lei minimizzò su quel trascorso.
“Non mi ci fate pensare. Che schifo! Solo a tredici anni si prendono certi abbagli.”
E invece non era male Achille. Aveva un evidente problema con l’acqua e il sapone, ma a parte questo… forse aveva anche paura delle forbicine per le unghie, ma insomma a parte questo… beh, probabilmente era allergico allo shampoo, ma a parte questo… sì, soffriva di aerofagia flatulente ma a parte questo…
E poi era un bravo ragazzo. È vero che gli chiedevamo di lasciare i pacchi sullo zerbino e di passarci la bolla di consegna sotto la porta, ma a parte questo eravamo affezionate a lui.
Tutte noi tranne Titti che se era costretta ad aprirgli la porta lo faceva turandosi platealmente il naso.
Achille non sembrava per nulla offeso, anzi si prodigava affinché fosse chiaro che lui se la sarebbe ripresa, la sua velona.
Intanto il tempo passava e Titti era più single del Padreterno.
A nulla servivano le scollature che si abbassavano, i tacchi che si alzavano, i jeans che si stringevano e il contorno labbra che si allargava.
L’unico che apprezzava le forme e le s-labbra di Titti era Achille.

“Che bel rossetto che c’hai stamattina Titti.”
“E’ lucidalabbra e chiamami dottoressa, fetido.”

“Titti non ti sembra di esagerare? Poverino, che ti ha fatto?”
“Mi fa schifo.”
“Titti, però se fai così…”
“…fai afflosciare pure un Pampax.”
“Buongiorno capo.”
“Si dice Tampax. E comunque lo sa che questa è una molestia sessuale bella e buona?”
“Una che?”
“Una molestia sessuale!”
“Boh. Io sono un tipo modesto. Ma a te non ti sessuerei manco morto.”


Chissà, forse la profondità di questa osservazione, forse un orologio biologico più grosso del Big Bang, fatto sta che Titti rivalutò la situazione.
Quantomeno questa fu la conclusione cui giunsi dopo averla vista annodarsi ad Achille come una pitonessa nell’oscurità di una sala cinematografica.
Il giorno dopo affrontammo l’argomento in pausa pranzo.
“Complimenti Titti. Achille è un bravo ragazzo. E…un gran lavoratore. E…molto simpatico anche. Ed è…è..”
“Taglia corto. Achille è un sudicio puzzone.”
“Ma…tu…tu…”
“Io cosa?”
“Tu ieri sera ci stavi appiccicata come una figurina Panini!”
“Lo so. Ci siamo rifidanzati. E probabilmente me lo sposerò quel quarto di gorgonzola.”
“Ma… ”
“La crisi è crisi.”
“Questo è vero.”
“E comunque ogni scarpa diventa scarpone.”
“Già. Ed è meglio un uovo oggi che una gallina domani.”
“Esatto. E a caval donato non si guarda in bocca.”
“Concordo. E chi si accontenta gode.”
“Perfetto. E non è bello ciò che è bello, ma è bello ciò che piace.”
“Giusto. E non far sapere al contadino quant’è buono il formaggio con le pere.”
“?”
“Questa non c’entra. Scusa”

Titti aveva ragione. In tempo di crisi non si butta via niente. L’altro giorno ho visto un programma tv in cui una signorina mostrava come riciclare vecchia roba facendone oggetti da arredo.
Santo cielo, se quella criminale ha avuto il fegato di trasformare un microonde rotto in una fioriera …vuoi vedere che da un ex fidanzato puzzolente non ci si può ricavare un marito di prima mano?

venerdì 1 ottobre 2010

Il degente

In giro ce ne sono tanti, ma si nascondono molto bene, per cui è difficile individuarli.
Sto parlando di una specie molto ma molto pericolosa per noi donne: i degenti.
Il dizionario italiano definisce degente chi “per malattia o altro incidente è costretto a rimanere a letto o è ricoverato in un luogo di cura”.
Io invece la vedo così: il degente è quel bipede che alla prima occasione ti arroventa le orecchie e ti stira il cervello con i dettagli sulla sua ultima dolorosissima storia d’amore.
Facciamo però le dovute distinzioni: c’è chi soffre sul serio e chi soffre a comando.
Il primo è un degente autentico. Sta male davvero e se esce con voi è solo perché ormai anche il suo criceto si infila i tappi nelle orecchie appena lo vede arrivare.
Se pensate che la “sindrome della crocerossina” colpisca solo le altre donne, allora usciteci pure. Ma risparmiatevi il parrucchiere, l’estetista e il perizoma di strass. Soldi buttati. Non dimenticate però un plaid e dei viveri. I discorsi di un uomo che soffre per amore sono più lunghi e noiosi del Decalogo di Kieslowski. E comunque piuttosto che un degente, vi consiglio di adottare un monumento. Più utile e soddisfacente.
Se poi nutrite la segreta speranza di avviare una relazione con un tipo così malmesso, io vi suggerisco caldamente un mese di volontariato a Calcutta.
Parlo per esperienza diretta.
Molti anni fa mi invaghii di in un degente quasi pronto per l’obitorio.
Era estate e lui faceva il cameriere in un piano bar. Ogni sera aspettavo pazientemente che finisse il turno per sedermi a tavolino con lui e spararmi in vena tutti i particolari della tragica storia d’amore con Viviana, la sua ex.
Anche un cardellino avrebbe capito che il tizio aveva un elettroencefalogramma quasi piatto. Invece io contavo di ridurre Viviana ad un lontano ricordo in un paio di sedute.
Ma a Ferragosto stavamo ancora a “quella volta in cui io la portai a Venezia per il suo compleanno, e la stronza si mise a flirtare con il gondoliere.”
Quando l’estate volgeva al termine, la degente ero io. In posizione obliqua sulla sedia, ero collegata ad un boccettone di Negroni tramite cannuccia chilometrica, mi limitavo ad annuire di tanto in tanto e contemporaneamente tiravo su un po’ di liquido. Una sera decisi di saltare la seduta. Non ce la facevo più. La sera successiva lo trovai in stato larvale.
“Hei, che hai?”
“Ieri non sei venuta…io ti aspettavo…sono stato male senza di te.”
Ueilà, si muove qualcosa. Finalmente!
“Mi dispiace…è che non stavo bene, ma adesso è tutto ok. Però… sono felice che tu abbia sentito la mia mancanza…”
“Già. Bene. Dove eravamo rimasti?”
“Ah…uhm…a quella volta che tu chiedesti a Viviana chi avrebbe gettato giù dalla torre se te o il suo pechinese e lei rispose che ci doveva pensare.”
“Ah sì! Ma ti rendi conto?! - Ci devo pensare - Come se io e quel ratto peloso fossimo sullo stesso piano! E non ti ho ancora raccontato di quella volta che…”
“Scusa un attimo, ti dispiace se prima ordino il solito?”
…tanto è l’ultimo. Sono sicura che la sta dimenticando. Sento che si sta affezionando a me.
“Ma figurati, faccio io. Anselmo! Anselmoooo!! Porta un Negroni per…per…scusa, com’è che ti chiami?”


La seconda categoria, quella dei malati immaginari, è molto più pericolosa e infida.
Ci sono uomini che scoppiano di salute e testosterone. Ma appena gli chiedi qualcosa di più concreto li vedi impallidire, balbettare, tremare, e se necessario anche piangere.
“Oddio…cos’hai? Non ti senti bene? Santo cielo, ti ho chiesto di accompagnarmi al matrimonio di mia cugina, mica a Mauthausen!”
“No…è che… sai…ti ho mai parlato di Lara?”
“No.”
“Il fatto è che Lara è ancora una ferita aperta.”
Tra un po’ te la apro io una ferita in fronte.
“Lei…lei…oddio….”
Singhiozzo convulso.
“Parlarne è troppo doloroso per me… non so se ce la faccio.”
“Ce la fai, ce la fai…”
“No…io non ce la..”
“CE LA FAI.”
“La…Lara era la mia ex. Ci dovevamo sposare, ma un giorno lei se ne è andata senza una spiegazione. E io da allora soffro. Soffro maledettamente.”
“Non mi pareva che stanotte soffrissi tanto. E comunque pazienza, verrai sofferente.”
“Io… non ce la faccio, soprattutto ai matrimoni non ce la faccio. Ti rovinerei la festa.”
“Sarà rovinata se finirò seduta al tavolo Mughetto.”
“Cosa?”
“Il tavolo delle cugine single. Tu verrai con me e siederemo al tavolo Orchidea, quello delle cugine accoppiate.”
“Ough! Couf Couf…No…ti prego, sto troppo male. Il ricordo di Sara mi affligge.”
“Non si chiamava Lara?”
“Ah sì! Certo, Lara. Lara, sì.”
“Senti, per me puoi anche venire con una flebo infilata nel braccio. Ma siederai con me al tavolo Orchidea.”
“Tu non capisci, io ho rasentato il suicidio per Mara!”
“Lara.”
“Ah…sì. Lara, Lara.”
“Forse non hai capito, io a quel matrimonio ci devo andare accompagnata, anche da un cadavere se necessario.”
“Mi dispiace ma non credo che reggerei…”
“Stammi a sentire, lurido pezzo di letame avariato: a Lara, Sara e Mara aggiungici anche una BARA.”
“Ba..Bara?”
“Sì, BARA. È il nome del monolocale in cui passerai il tuo futuro se non verrai con me a quel cazzo di matrimonio e non incollerai il tuo culo a quella fottuta sedia di quel fottuto tavolo Orchidea. Chiaro?”

Il degente sarà pure pericoloso, ma con una donna che rischia il tavolo Mughetto, non c’è partita.

martedì 28 settembre 2010

L'abito fa l'ex

Uno dei tanti motivi per cui prima o poi qualcuno farà saltare in aria Facebook sono le vecchie foto di classe perfidamente scansionate e pubblicate con tanto di nome e cognome che aleggia sull’alunno.
Passi che mi si pubblica con il rigagnolo di ragù sul mento, con la pancia che fugge dalla maglietta, con gli occhi bianchi da posseduta, passi pure quella foto in cui unendo i puntini sulla mia faccia comparirà una sega elettrica, ma il primo che si permette di pubblicare quella foto di classe del liceo in cui ho la frangetta cotonata, io lo denuncio.
Anche se infondo in quella foto c’è una cosa ancor più sconcertante della mia frangetta: l’abbigliamento dei ragazzi.
Ai miei tempi c’erano essenzialmente due scuole di pensiero: “io sono un paninaro e “se la vede mia mamma”.
La prima produceva pupazzi con felpette bombate, jeans a metà polpaccio e calzettoni a rombi. Per fortuna la specie si è estinta in un paio di stagioni.
L’altra corrente invece fabbricava mostri di varia natura: “figlio di madre che si crede furba e acquista capi taroccati” (nella foto il poveraccio indossa una cintura dalla fibbia grossa come un vassoio con su scritto “El Ciato” e una felpa slabbrata della “Cess Company”)
Immancabile il “figlio di madre attempata” magari anche vedova: camicia di flanella a quadretti, golfino a trecce grigio e pantalone marrone di velluto a coste, pure a maggio.
Più raro ma esistente il “figlio di madre politicamente schierata”: tuta da metalmeccanico e borsa verde militare a tracolla.
La categoria più simpatica era “figlio di madre che dice al figlio di arrangiarsi”.
Da loro ti potevi aspettare di tutto. Uno di questi un giorno venne a scuola con una casacca da karate. Alla professoressa sconcertata spiegò che era l’unica cosa pulita trovata nell’armadio.


La differenza principale con i ragazzi di adesso era l’esiguità del guardaroba. I miei compagni di classe avevano due cambiate per l’inverno e due per l’estate. Stop. Quando c’era ginnastica mettevano la tuta blu con le strisce bianche di lato. Stop. Alle feste indossavano una camicia. Sempre la stessa. Stop.
Noi ragazze eravamo molto sensibili alla natura delle due cambiate. Se nessuna delle due ci garbava eravamo capaci di ignorarli fino al cambio di stagione. E se la mamma toppava ancora, se ne parlava a settembre.

Questa attenzione per l’abbigliamento maschile non finì con la scuola. Anzi. Non sono mai stata una “fashion victim”. E come me gran parte delle mie amiche. Non eravamo alla ricerca del griffato. Ma c’erano dei scivoloni imperdonabili. Qualche esempio:
- Tris infame (jeans, camicia di jeans e giubbino di jeans indossati contemporaneamente)
- Maglione a pelo (indossato senza niente sotto).
- Polo ficcata nei pantaloni senza cintura.
- T-shirt una taglia in meno. (Si accettavano eccezioni per pallanuotisti).
- Calzino di spugna bianca con scarpa classica.
- Calzino di filo nero con scarpa da ginnastica.
- Camicia dell’impiccato (abbottonata fino all’ultimo bottone)
- Abbinamento luciferino (“di rosa e celeste solo il diavolo si veste”)
- Abbinamento levasaluto (nero e blu)
- Abbinamento Picasso (scacchi e fiori, righe e rombi, pois e losanghe)



Per la giacca la regola era semplice: se il colore faceva pensare ad un frutto…era out.
Niente rosso fragola, niente rosa pesca, niente giallo banana o limone, niente verde mela, niente viola prugna.
Poi certo, dipendeva molto dalla persona. L’originalità era ben accetta, ma con le dovute cautele.
Una mia amica lasciò il suo neofidanzato molto figo dopo soli quattro giorni quando anche il quarto lui si presentò con una maglietta recante l’iscrizione “Woytila il Papa del Duemila”.
Embè. Il primo giorno sei originale, il secondo giorno sei simpatico, il terzo giorno sei devoto, il quarto giorno sei zozzo.

Più in là negli anni decisi che era ora di smetterla con queste fissazioni perché l’abito non fa il monaco. Mi sbagliavo. L’abito fa il monaco, e pure l’ex.

Al primo appuntamento uno dei miei ex mi invitò su a casa sua per ammirare il suo guardaroba.
Una strana variante della collezione di farfalle, pensai.
“È un pezzo d’antiquariato? Guarda, io non è che ne capisca…”
“Non parlavo dell’armadio, mi riferivo ai miei vestiti.”
Mai sentita una scusa più strana. Infatti non era una scusa.
Quante volte mi sarei chiesta perchè non lo piantai nel corso di quella agghiacciante sfilata!
Bah. Sarà stata la naftalina ad occludermi i connettori cerebrali.
L’ex-emplare pensò bene di iniziare con le giacche. Altro che regola della frutta. Pareva un mercatino rionale. Ne tirò fuori una rosso anguria che fu proprio come ricevere una cocomerata in faccia. La più sobria era perfetta per la Muccassassina.
“Aspetta qui, il prossimo me lo devi vedere addosso. Vado a cambiarmi.”
Ricomparve in un gessato nero a righini rossi che mi fece lacrimare.
“Non è che per caso c’erano abbinati anche gli occhialini in 3D per chi ti sta di fronte?”
Non capì, era troppo eccitato all’idea dell’esibizione delle cravatte. Pensavo scherzasse quando tirò fuori tutta la linea Disney.
E invece disse serissimo: “Ecco vedi, questa rossa con i dalmata io l’abbino sempre a questo gessato”. Mi assalì la visione dei cagnolini in fuga di massa dalla cravatta.
Continuava a nominare stilisti famosi, Valentino, Fendi, Ferrè, Ferragamo. E io non potevo credere ai miei occhi. In quell’armadio c’erano tutti gli sfondoni dei colossi della moda.
Poi venne la volta delle camicie: ne ricordo una nera con zampata di tigrato in diagonale.
“Roberto Cavalli” sottolineò fiero.
Signor Cavalli, io l’ammiro, ma l’animalier da uomo non fa troppo paleolitico?
Infine tirò fuori il pezzo cult: un lungo cappotto azzurro.
“Oh. Bene. Quest’inverno mi toccherà passeggiare con Mago Merlino.”
Questa la capì e la prese malissimo.
Per riabilitarsi tirò fuori il suo ultimo acquisto: un soprabito firmato da quel maniaco delle carte geografiche. Sembrava il mappamondo gigante del Louvre.
Signor Alviero Martini, lei dopo una certa taglia, dovrebbe impedire la produzione.
Quando pensavo fosse finita, lui con gli occhi luccicanti annunciò il gran botto:
“E questo è il mio preferito, ma lo metto solo in certe occasioni”. Era un completo camicia e pantalone in seta lavata viola. I bottoni della camicia partivano all’altezza dello stomaco.
“Ah. E… in quali occasioni te lo metti questo?”
Meglio saperlo prima.
“Solo per i concerti di Renato Zero.”
“Ma non mi dire. Sei un sorcino…”
“Caspita, non me ne perdo uno.”
Renato ti prego, hai un’età, è ora di smettere. Poi i giornali scrivono “avvistata melanzana gigante al concerto di Renato Zero” e tu ci resti male.
“Vuoi vedere come mi sta?”
“NO! No…pare delicato, finisce che si rovina.”
Quando ci lasciammo, lui mi chiese se volevo uno dei suoi capi per ricordo. Io chiesi il completo da sorcione. Volevo liberare il mondo da quella calamità. Ma lui non volle.
“Quello no, mi dispiace. Però ti darei volentieri la cravatta con Crudelia Demon”.


Concludo con il caso più sconcertante. Uno dei miei ex a trent’anni non aveva ancora deciso se essere un bambino di Satana o un figlio di mammà.
Una volta lo vidi arrivare con i pantaloni in pelle nera e mi dissi “Finalmente ha deciso.”
Poi si piegò e gli vidi spuntare le mutande dei Teletubbies dalla cintura.
“No. Non ancora”.
Quando avvistai una maglietta della salute sotto la t-shirt di Marylin Manson, accusai un malore.
Ad una festa indossò una camicia nera molto trendy, un jeans attillato un po’ sdrucito, molto cool. E ai piedi un paio di Kickers. Sì, lo so. Anche io pensavo che oltre il 35 non le facessero.
“Mia madre dice che il piede deve stare comodo.”
Certo, soprattutto quando si muovono i primi passi.
In inverno portava un soprabito nero molto “cattivo”. Ma se si alzava il vento tirava fuori dalla tasca un cappello di lana scozzese, di quelli con la visiera ed i paraorecchie.
"Da piccolo ho avuto una brutta otite e non voglio rischiare".
Ho capito ma così rischia chi ti sta vicino!
Non saprei dire cosa sembrasse. Non lo so, un vecchio giocatore di baseball scappato da un manicomio criminale, il primo della classe in preda ad un raptus omicida, un allevatore di camosci trapiantato a Manhattan…non lo so. Comunque era un ibrido spaventoso.
Appena lo vedevo infilarsi il berretto in testa, dentro di me sentivo una vocina che mi suggeriva:
“Fuggi!”
Quando ci lasciammo, ad un bel momento le cose si misero sul difficile.
“Sette giorni, ti prego, solo sette giorni ti chiedo!”
“Ma…a che pro?”
“In sette giorni possono succedere tante cose!”
“Mah…non credo…”
“Certo che sì! Dio in sette giorni ha creato il mondo intero!”
“Non è che siete proprio la stessa cosa…”
“Non scherzare, dico sul serio. Ti chiedo una sola settimana della tua vita! Ti supplico. Oggi è…aspetta oggi è…”
Sollevò un po’ la gamba dei jeans, lesse qualcosa sul bordo del calzino di Dragon Ball e concluse:
“Giovedì. Oggi è giovedì!”
“Ma…?!”
“C’è scritto qui. Mia madre me ne ha comprato sette paia, uno per ogni giorno della settimana. Li trovo comodissimi perché mi sfugge sempre che giorno è.”
Oddio…
“Dicevo, in questi sette giorni tu vedrai il meglio di me. Dammi questa possibilità, per favore. Ti farò vedere che alla fine di questa settimana tu mi amerai di nuovo.”
Sì vabbè, la sfida all’ultimo calzino.
Colta dalla stanchezza stavo quasi per prendere in considerazione la richiesta.
Ma all’improvviso, freddo e pungente si alzò il vento. E la decisione fu presa.
Il cappellaio matto si mise ad urlare:
“Hei! Dove vai? E la nostra ultima settimana insieme? Ti prego! Quando ti rivedròòòòòòò?”
“Non lo soooooo. Vedi un po’ cosa dice Dragonboooooooooooooool"

venerdì 3 settembre 2010

ex gonfiabile

Ho dovuto rileggere l'articolo due volte. Ma avevo letto bene la prima: se proprio non riuscite a dimenticare il vostro ex, esiste una ditta che ve lo riproduce in versione gonfiabile. Basta che forniate una foto e specifichiate misure corporee del dipartito.
Sono senza parole. Ma sento che sto per trovarle.

Personalmente preferirei avere in casa l'esercito delle dodici scimmie piuttosto che un gonfiabile con la faccia di un mio ex. Oddio, forse un paio di miei ex in versione mongolfiera sarebbero un ottimo antifurto e un perfetto antiacari. Se fossi un ladro mi spaventerei a morte nel trovarmeli davanti. E anche se fossi un acaro.

Ma pare che ci siano già molte richieste. Beh, mi rivolgo proprio a coloro che sono in lista d'attesa: no, dico, cosa c'avete in testa? L'uragano Katrina?
Cosa diamine ci fate con un ex gonfiabile? Ci andate insieme allo stadio? Al cinema? Al ristorante vietnamita? Oppure gli fate il bagnetto dentro Fontana di Trevi e lo alimentate con una tanica di latte aspettando che gli esca dal foro posteriore?
Non potete nemmeno prenderlo a botte per vendicarvi del benservito. Dovesse scoppiarvi tra le mani, sappiate che non è in garanzia.
Signori, di più inutile di un ex, c'è solo un ex gonfiabile.

Lo sapete che con un simile arredo in giro per casa perdete ogni speranza di avere una nuova relazione? Non solo di tipo amoroso, ma di qualsiasi tipo.
Nemmeno il vostro migliore amico vorrà condividere il divano con un canotto a forma di ex. Persino la donna delle pulizie vi chiederà la liquidazione. Il vostro cane inoltrerà domanda d'adozione ai vicini, i pesci rossi si suicideranno nell'acqua per la pasta e il furetto se la filerà su per la canna del gas.

Ascoltate il mio consiglio, disdite l'ordine finchè siete in tempo. L'ex gonfiabile non è altro che una meschina idea di chi vuole speculare sulla nostalgia.
Con gli stessi soldi, fatevi una bella vacanza in Lapponia, regalatevi un abbonamento alla Gazzetta dei Puffi, che ne so, adottate a distanza un impiegato giapponese.
E se proprio avete il debole per i gonfiabili, ne esistono di più economici e meno inquietanti: li trovate nei negozi di giocattoli in versione Teletubbies, Spiderman ed Hello Kitty.
Se ormai è troppo tardi per disdire, cerchiamo insieme una soluzione.
Alle donne consiglio di riciclarlo come passeggero in auto quando tornano a casa da sole la notte. Può essere comodo anche come sfollagente: adagiatelo con coperta scozzese e occhiali scuri su una sedia a rotelle e vedrete come vi cederanno il passo al supermercato, in banca o alle poste.


Agli uomini suggerisco di utilizzare la bambola come materassino per prendere il sole al mare. Le signorine sulla spiaggia penseranno che siate un abile amatore alle prese con piccanti evoluzioni subacquee.
O magari fate così: organizzate il "Primo raduno di ex gonfiabili", recatevici con il vostro acquisto, lasciatelo libero di socializzare con i suoi simili, e voi fate lo stesso con i vostri. Vedrete che qualcosa verrà fuori.

Ma c'è un modo più intelligente per liberarsi dell'acquisto avventato e, contemporaneamente, farla pagare al responsabile dello stesso che nel frattempo se la spassa con una nuova fiamma. Introducetevi di soppiatto in casa del vostro ex - appena uscito per una cena galante - e collocate il suo clone in posizione strategica, di modo che lo veda non appena aprirà la porta d'ingresso con il suo "dopocena" sottobraccio.
Mi raccomando, prima di uscire abbiate cura di chiudere la porta del bagno a doppia mandata e gettare la chiave dalla finestra.
Non appena l'infido e la sua dolce compagnia si troveranno faccia a faccia con il sosia gonfiabile, ad entrambi monterà un cagotto vulcanico. E, non potendo dargli dignitoso sfogo causa bagno sbarrato, si lasceranno andare sul pavimento ad un' esplosione di mutande un po'diversa da quella che avevano programmato.

Ecco, a questo punto i vostri soldi saranno stati non proprio ben spesi, ma almeno non gettati.
E mi raccomando, la prossima volta che vi verrà in mente un'idea simile, fate un salto su questo blog che gli ex li distrugge, non li riproduce.

mercoledì 11 agosto 2010

Ex di stagione

Come insegnano gli assassini dietro le sbarre, tornare sul luogo del delitto non è mai una buona idea. Ma lo si capisce sempre dopo.
Purtroppo le località di villeggiatura dove si sono trascorse adolescenza e gioventù, brulicano di ex più che di zanzare. Questo è un dato di fatto con cui faccio i conti ogni estate.

La settimana scorsa ero in spiaggia quando vedo avanzare verso di me un tipo dinoccolato sulla quarantina, stempiato e smilzo, con degli occhiali da sole che faccio fatica a descrivere: enormi, di plastica gialla e con una specie di grata al posto delle lenti.
“Bellissima, come stai?”
Ce l’ha con me??
“Ehmm… bene.”
Sì, ce l’ha con me e mi sta anche un po’ troppo vicino. Santo cielo…sono stata intima con questo personaggio!
“Benissimo direi. Hihi. Ti aspettavo, sai? Però speravo mi chiamassi appena arrivata. Da quanto sei qui?”
Hihi?!?!
“Qualche… giorno...”
Forse a quel pareo-party… o a quel gavettone-party…no…no, certamente a quel sangria-party…
“Senti, stasera qui c’è un falò, ci andiamo insieme? Ci siamo sempre divertiti ai falò. Hihi..”
“Ah sì…?”
Falò? Allora è roba preistorica.
“Dai che mi fa piacere. Beviamo qualcosa, parliamo un po’ dei vecchi tempi e… hihi…”
Trovo sempre più agghiacciante che questo tizio con due radiatori sugli occhi abbia motivo di fare “hihi”nella mia direzione.
“Tanto lo so che per convincerti bisogna insistere parecchio, ma che poi alla fine cedi…hihi”
Al prossimo hihi ti stampo un cazzotto sul naso.
“Io veramente…”
“Facciamo così: ti fai bella, ti infili uno dei tuoi vestitini rosa e mi raggiungi qui. Io porto la chitarra e ti faccio un po’ Baglioni.”
L’ultimo vestitino rosa l’ho messo che avevo sei mesi. E a Baglioni preferisco una messa cantata. Qualcosa non quadra.
“Adesso vado. Guarda Ketty che ci conto sul serio.”
“Ketty!?”
“Posso sempre chiamarti così, vero? Caterina è troppo lungo e poi mi ricorda mia zia, lo sai.”
Non so chi sia Ketty o Caterina, ma non sono io, e questa è l’unica cosa che conta. Quest’imbecille mi ha scambiata per una sua ex. Per forza. Cammina con le veneziane in faccia!!
“Sì sì figurati. Chiamami come vuoi.”
“Magari più tardi ti faccio uno squillo.”
“Come no.”
Squilla, squilla.
Hihi.

Il giorno successivo invece sono stata io a riconoscere un mio ex sul bagnasciuga. Ex per modo di dire. Quelli estivi si sa, durano meno di un ghiacciolo al sole.
Appena mi ha vista, è sbalzato dalla sdraio come se gli fosse esploso un petardo nel costume.
“Hei! Oi! Uè!”
“Ciao…”
“Che ci fai qui?”
“Ci vengo in vacanza, come ogni…”
Al che si è guardato intorno furtivo, si è lanciato in acqua con tuffo a zeppola e si è allontanato verso il largo a forza di bracciate a mulinello.”
“…anno. Bah!”
Poi ho capito. Dopo un paio d’ore stavo tornando verso casa quando ho visto nel parcheggio un bestione in bikini due metri per tre che abbaiava contro una montagna ambulante di lettini, ombrellone, sdraio, canotto, asciugamani e borsa frigo.
“Tu non ci devi andare al bar hai capito? Al bar ci vado io e te lo compro io il Cucciolone! Quel bar è pieno di cretine col culo da fuori! Te l’ho detto mille volte! La prossima volta che ti becco lì ti stacco la testa!”
Il paguro a rischio decapitazione era il mio ex-ghiacciolo. E quel diavolo della Tazmania, sua moglie.
Felicitazioni!

Qualche giorno dopo mi sono imbattuta in un altro ex, sempre categoria ghiaccioli, che faceva il bagno insieme a un bambino sui quattro anni. Appena mi ha visto, l’ex-emplare ha dato le spalle al piccolo, si è lisciato i (pochi) capelli all’indietro e si è messo in posa casual-sirenetto.
“Ciao cara.”
“Hei! Ciao! Santo cielo hai un bambino?!”
“Bambino? Quale bambino?”
“Quello…non è tuo figlio?”
“No, no…”
“Ma come? È il tuo clone!”
“Sì… perché è mio nipote, è il figlio di mia sorella.”
“Che a occhio e croce adesso ha sedici anni…”
“Eh…sì, te lo ricordi eh, beh sì. Ha fatto il guaio.”
“Caspita. Beh, però un guaio molto carino.”
Orgoglio sospetto nel suo sguardo, prontamente sostituito da un’occhiata maliziosa.
“E tu? Sei single, fidanzata, sposata, convivi?”
“Io son…”
“PAPA’ PAPA’! GUARDA COME FACCIO I RUTTI SOTT’ACQUA!”
“?”
“Eh eh…sai com’è, gli faccio un po’ da padre. Il suo praticamente non lo vede mai…Guido non si fa!”
“Ho capito. Certo che ti somiglia proprio tant…”
“PAPA’ PAPA’! GUARDA COME FACCIO LE PUZZETTE SOTT’ACQUA CON LE BOLLE!”
“Oddio…eh eh… questi bambini…Guido finiscila!”
“MA TU LE FAI SEMPRE!”
Allora è suo figlio. Senza dubbio.
“Ma che dici, Guido…eh eh. Hem.”
“Ok, è stato un piacere. Complimenti… zio. È un bel bambino.”
“No aspetta! Stasera la mia ex-moglie viene a prenderlo, quindi ho la serata libera…”
“La tua ex moglie, cioè la sua ex zia acquisita?”
“Hem, sì. Sono molto affezionati.”
“Ma che bello. Beh. Salutami tanto tua sorella, eh. Ciao ciao.”
“Volevo dire che mia sorella e sua zia, cioè no, la mia ex moglie e sua sorella, cioè no, la mia ex-sorella e sua moglie…”
“PAPA’ PAPA’ PAPA’”
“E STATT ZITT’! Dicevo che se sei libera, potremmo…”
“Vedi che tuo figlio, scusa, tuo nipote, sta annegando.”
“Chi? Uh! Oh! GUIDO, BELL’E PAPA’, ARRIVOOOOO!”

La ballata degli ex di stagione si è conclusa con Lupino. Ex non mio, ma di Sabrina, la più gettonata tra le mie amiche d’infanzia.
Lupino è un ragazzo del posto, fa il pescatore da quando aveva tredici anni, e più o meno a quell’epoca risale la sua liason con Sabrina.
Verso le undici del mattino io e le mie amiche, Sabrina in testa, ci dirigevamo in blocco verso il porto dove Lupino scaricava il pesce dal suo gozzo, sudato e distrutto con già cinque ore di lavoro alle spalle.
Forse il poverino anelava ad un briciolo di intimità con la sua sirena, ma senza fiatare imbarcava lei e tutte noi. Una volta al largo iniziava la parata di tuffi, calate ed evoluzioni sull’acqua. Lupino era timido, non sapeva come inserirsi in quella masnada di tarantole in costume, e così stava seduto ad arrostirsi e a guardare Sabrina che si divertiva insieme a noi.
Sì perché a quei tempi e a quell’età, se volevi sfoggiare uno straccio di fidanzata, dovevi farti carico di tutte le sue amiche e ricordarti di trattarle anche molto bene. Infatti alla fine della gita, Lupino non mancava mai di regalarci un secchiello di pesce a testa.
La relazione finì quando arrivò Donatello, un pischelletto di città a cavallo un fiammante Sì Piaggio.
Sabrina e Donatello si fidanzarono, e noi passammo dal gozzo al Sì, obbligando il ragazzo a farci fare estenuanti giri in motorino una alla volta. Penso che per dare un mezzo bacetto a Sabrina, ogni giorno il poverino facesse diecimila lire di miscela. E poi la sera ci offriva valanghe di gomme da masticare e rotelle di liquirizia. Certo, il secchiello di pesce era meglio. Ma se hai tredici anni le Big Babol hanno il loro fascino.
Da allora Lupino non si è mai più ripreso. Di anno in anno Sabrina passava dai vespini alle Red Rose, dalle non carenate ai Dominator, dalle Fiat Panda alle Ford Fiesta dove iniziò a non gradire la folla di noi amiche sui sedili posteriori.
Ma non è mai più andata per mare e se oggi le nomini Lupino, ti risponde “chi?”.
Io invece a inizio estate vado sempre sul porto a salutarlo. Ma il suo argomento da circa vent’anni è sempre lo stesso.
“E Sabrina non è venuta quest’anno?”
“No, non ancora.”
“Tanto a me non mi frega niente.”
“Lo so, lo so.”
“Dice che si è fatta bionda, vero?”
“Sì.”
“Tanto a me non mi frega niente.”
“Immagino. Senti, non è che avresti per caso una bella cernia?”
“Come no. Freschissima, presa stamattina. Rovinata.”
“E’ rovinata? E allora dammi qualcos’altro.”
“Parlavo di Sabrina. Di certo stava meglio bruna.”
“Mah… è cambiata...”
“Tanto a me non mi frega niente.”
“Appunto. Che bella questa cernia, stasera mia madre fa la brace!”
“So che se la fa con brutta gente.”
“Mia madre!?”
“Sabrina!”
“Ma no…Quanto pesa?”
“A occhio e croce adesso avrà toccato i sessanta.”
“La cernia!?!”
“Ah, pensavo Sabrina! La cernia un tre chili. Meglio starne lontani. Una brutta razza.”
“Oddio, e allora prendo qualche seppia, due calamari…”
“Parlavo di Sabrina!”
“Ah...”
“Tanto a me non mi frega niente.”
“Ecco.”
“Senti, comunque dille di stare molto attenta”
“A Sabrina? Ma che fai, minacci?”
“No! A tua madre!”
“Ah…e perché?”
“La cernia è la fine del mondo solo se la sai cucinare.”
“Oh, figurati, lei lo saprà.”
“E’ sempre stata una povera scema.”
“Mia madre!?!”
“No la cernia! Cioè, volevo dire, Sabrina!”
“Vabbè dai.”
“Tanto a me non mi frega niente.”
“Uhm.”
“E’ la morte sua.”
“Ancora con le minacce?!”
“La brace! È la morte della cernia!”
“Ahhh!”
“E comunque è sempre la numero uno.”
“Sabrina?”
“No, tua madre, in cucina.”
“Mannaggia Lupì, mi stai facendo impazzire.”
“Scusa, ok, salutala da parte mia.”
“Chi? Sabrina, mia madre o la cernia!?!”
“Fai un po’ tu. Tanto a me…”
“Non ti frega niente.”

E come ogni anno, dopo una prima mangiata di ottimo pesce fresco, l’estate prosegue e si conclude con filetti di platessa findus.

martedì 4 maggio 2010

L'amore ai tempi della Sip - parte II

Il post sull’amore ai tempi della Sip ha (re)suscitato così tanti ricordi e commenti da parte dei miei amici, che penso meriti un seguito.

Qualcuno, ad esempio, mi ha riportato alla memoria l’infame ruolo di chi doveva attendere la telefonata.
Il/la disgraziato/a non solo non poteva uscire di casa, ma non poteva farsi una doccia, stendere i panni o farsi una dormita per tutto il tempo dell’attesa. Che poteva durare anche giorni e giorni.
Se poi nella stessa casa c’erano più persone che aspettavano una telefonata importante, il clima si faceva così elettrico che potevi passare l’aspirapolvere senza inserire la spina nella presa.
Il telefono era al centro del salotto, come un oracolo, come un Buddha. Muto quando stavi a fissarlo, assordante appena entravi nella vasca da bagno.
Ma per qualche motivo oscuro tu sentivi che la tua vita dipendeva da quel filo a spirale, eternamente attorcigliato e sempre troppo corto.
In una casa di mia conoscenza abitava una famiglia composta da genitori e cinque figli. L’ultimo nato con notevole distanza di tempo dal quarto. Quando i primi quattro erano in piena tempesta adolescenziale, dunque, il piccoletto muoveva i suoi primi passi. E spesso lo faceva proprio nei pressi del telefono, che se si metteva a squillare erano guai. Quattro bisonti furiosi si lanciavano verso l’apparecchio ignorando il fratellino che puntualmente volava per aria, atterrando sul provvido tappeto. Col passare degli anni anche il bimbo crebbe e cominciò a correre verso il telefono insieme ai fratelli. E a volare per aria in quel periodo fu il gatto.

Qualcun altro invece mi ha ricordato l’indecente, ma utile, pratica dello “squilletto”. Il tuo fidanzato ti diceva che sarebbe rimasto a casa tutta la sera? Ok. Mi fido. Anzi no. Facciamo lo squilletto. Lui rispondeva e tu mettevi giù, senza dir niente. Bravo. Ma al tipo ossessivo compulsivo questo non bastava. E la tecnica dello squilletto andava avanti tutta la serata finché il poveraccio staccava il telefono e tu il giorno dopo eri autorizzata a spaccargli i maroni “perché tu avevi chiamato per dargli la buonanotte e avevi trovato staccato, certamente l’aveva fatto lui di proposito proprio un attimo prima di uscire per andarsene a bivaccare con quella mandria di idioti dei suoi amici”.

Quando poi avevi una relazione a distanza il telefono diventava un prolungamento del tuo corpo.
Perché non solo non esistevano i cellulari, ma non c’era Internet, non esistevano le compagnie aeree low cost, e i treni Freccia Rossa.
Potendo, te lo saresti ingoiato quell’aggeggio pur di sentire più vicino al cuore il tuo tesoro. All'inizio. Di solito a settembre quando ancora ti illudevi che il tuo flirt estivo fosse una grande storia d’amore.
Verso la festa di Ognissanti cominciavi a fare due conti. Costo settimanale per le telefonate: ventimila lire. Uscite in centro per esibire il fidanzato davanti alle amiche single: zero.
E annunciare a voce ben alta: “ragazze scusatemi devo chiamare” prima di appartarsi con una cabina telefonica, non faceva lo stesso effetto.
Verso Natale ti rendevi conto che il tuo status di fidanzata valeva quanto un abbonamento scaduto.
E che se qualcuno ti chiedeva com’era il tuo ragazzo, tu rispondevi: “Bah, carino, sì. Ma niente di che. Certo, non di quelli antiquati grigi con la rotella girevole. Lui almeno ha i tastini. E quando squilla si illumina tutto. Ma per la verità non mi accende più come prima.”
Verso gennaio il “fidanzafono” veniva formalmente informato sulla sua nuova e definitiva condizione di ex. Con raccomandata senza ricevuta di ritorno.

È da tempo che non ho più un telefono fisso in casa, ma quando ne vedo uno in casa altrui resto sempre più sorpresa dal livello tecnologico. Display per identificare chi sta chiamando, schermo per videochiamate, connessione Internet, porta USB, rubinetto per acqua calda ecc.
Un tempo i telefoni erano tutti uguali. Grigio topo, con rotella mangiadito e pulsantini bianchi per isteriche e ripetute pigiate in caso di occupato. E poi non esistevano le vocette, quelle delle signorine che oggi ti fanno il cazziatone se sbagli numero.
La prima volta che mia nonna – un po’sorda – venne a contatto con una vocetta, riattaccò di colpo, sdegnata.
“Che c’è nonna, chi era?”
“Ho sbagliato numero. Ho chiamato una svergognata con una voce tutta scicchignacche.”

Comunque dicevo che in origine era un solo modello, poi, all’inizio degli anni novanta il telefono è diventato un gadget di culto e ne sono usciti di tutti i tipi: a forma di panino, di lattina, di aragosta, di banana…più era strana la foggia e meno era probabile la conversazione. Un po’ perché non funzionavano mai bene, un po’ perché come si fa ad affidare i propri discorsi ad un bassotto con un filo che gli esce dal culo…scusate?
Io ne avevo uno a forma di scarpa da ginnastica ma non lo usavo volentieri perché mi dava la fastidiosa impressione che qualcuno mi camminasse sulla faccia.
Sempre meglio di quello di una mia amica a forma di gabinetto.
Una volta sua madre organizzò una cena raffinata per il principale del marito. Una di quelle cene da schieramento di tovaglie di lino, posate d’argento e bicchieri di cristallo.
Quando l’illustre ospite chiese di fare una telefonata, il padre della mia amica gli indicò orgoglioso il nuovo Sirio, quello disegnato dal guru del design Giugiaro.
Il capo si scusò e chiese se per caso non avessero un telefono in un’altra camera, poiché la telefonata era un po’ delicata.
“Ma certo, nella camera di mia figlia c’è un altro telefono. Faccia pure, lei non c’è, è uscita.”
Il poveruomo però non entrava in camera della figlia da circa sei mesi. E cioè da prima che il vecchio telefono a rotella venisse sostituito da un water.
Chissà se dopo molti anni il padre della mia amica è riuscito a prenderla con ironia e a ridere di quella volta in cui fu costretto a porgere un cesso al suo capo.

L’infausto evento però non fu sufficiente perché la ragazza si liberasse di quel telefono, regalo di San Valentino da parte del suo più grande amore. Vi lascio immaginare gli altri.
Una volta un’altra nostra amica decise che era ora di mollare il suo inutile e ingombrante fidanzato. E decise di farlo per telefono, ma da casa sua non poteva perché suo padre – un tipo un po’ all’antica - non aveva mai scoperto che aveva un fidanzato, e scoprirlo sul finire della faccenda non avrebbe migliorato le cose.
Di solito lei lo chiamava dalla cabina, ma non se la sentiva di mollarlo in quel modo. Non lo amava più, ma il poveraccio non meritava una fine simile. E così chiese ospitalità all’amica col gabinetto. Andai anche io nel mio consueto ruolo di supporter alle operazioni di scarico merci.
La mollatrice però non sapeva di quel telefono, della sua forma, e appena lo vide trasalì.
“Oddio! Ma cos’è?”
“L’apparecchio grazie al quale tornerai una persona libera.”
“Quello è un telefono?!? No, no, non lo posso usare. Non ne hai un altro?”
“Sì, ma è in salone dove c’è mio fratello che guarda la tele.”
“Ma insomma come si fa a lasciare uno con QUESTO aggeggio!?”
“Come lo si fa con un qualsiasi altro telefono.”
“Non posso, non mi viene!”
“Ufff! Quanto la fai lunga”
“Senti, fai così, chiudi gli occhi, digli quello che gli devi dire e attacca. Basta chiudere la tavoletta.”
E tirare lo scarico…
“Vabbè dai. E…oddio, panico. Cosa gli dico?”
“E che ne so, le solite cose che si dicono quando vuoi mollare qualcuno che proprio non reggi più, quella roba del tipo non so cosa provo, ho bisogno di tempo per pensare, sono in crisi ecc ecc”
“Nooo, che brutto! Io avrei pensato a: sono stata benissimo con te. Sei un bravo ragazzo e sarai sempre nel mio cuore, ma cerca di capirmi, sento il bisogno di fare nuove esperienze.”
“Che tradotto sarebbe: non mi piaci più, ma sei talmente sfigato che non voglio infierire. Apprezza il gesto e levati di torno che ho voglia di spassarmela un po’”.
“Non è vero! Sempre la solita cinica. Non lo amo più ma gli voglio ancora bene.”
“Ok ok…”

La ragazza brandì l'arredo bagno e diede inizio alla procedura di smollaggio.
“Pronto, ciao, sono io. Senti ti devo parlare.”
“Pure io.”
“Ah sì? E cosa mi devi dire?”
“Io…io non so più cosa provo per te. Ho bisogno di tempo per pensare e…”
“Sei in crisi.”
“Esatto.”
“Senti…fammi il favore…MA VAI A CAGARE.”


“Ecco. Vedi che alla fine il telefono ti è servito da ispirazione?”

venerdì 30 aprile 2010

Il nebuloso

Questa faccenda della nube di cenere che ha mandato in tilt il traffico aereo mi ha fatto pensare ad un genere di uomo che sta mandando in tilt la popolazione femminile: il nebuloso.
Il nebuloso è confuso, incerto, dubbioso. Non risponde mai con chiarezza alle domande, non prende posizione, non sa cosa prova, non sa cosa dire. Le sue reali intenzioni, i suoi reali sentimenti sono un mistero. Avvolti, appunto, in una fitta nuvola di “boh”.
Per una donna incappare in un nebuloso è una grande sciagura. Ma se ne rende conto solo alla fine perché all’inizio ha sempre la presunzione di possedere la chiave d’accesso per quell’essere “complicato e meraviglioso che nessuno ha mai compreso”. Dopo un periodo di tempo che varia da donna a donna, l’unica chiave che tutte vorrebbero avere è quella inglese per spaccarla in testa al nebuoloso e osservare come sono organizzati quei pochi neuroni che vi alloggiano.
Già, perché il nebuloso può anche apparire affascinante sulle prime, ma più in là, scostando lo strato di polvere, si trova solo altra polvere.
Eppure in giro ce ne sono a migliaia che si riproducono come replicanti.
Ovviamente anche io ho avuto il mio buon nebuloso. Quando uscivo con lui, il Moment nella borsa era indispensabile. Le nostre conversazioni toccavano picchi di assurdità inenarrabili.
“Domani andiamo al mare con i ragazzi?”
“Mmmmh..bah, se ti va, io non saprei, per la verità, io forse, però si dai, se vuoi, figurati, al limite vengo, poi vediamo, non so, magari vai tu, io poi vedo…”
“Non ho capito. Andiamo o no?”
“Ecco qui, anche tu come tutte le altre donne, volete sempre una risposta chiara su tutto, per voi è tutto bianco o nero. Voi donne non conoscete il grigio.”
“Come no, è il colore di quella materia cerebrale che ti manca.”

“Scusa, posso sapere perché mi continui a presentare come tua amica?”
“Bah, non lo so, non so che dire, infondo siamo anche amici, e poi…ma perché me lo chiedi?”
“Perché mi pare che siamo all’ABC.”
“Io…non lo so, perché fissarsi sulle definizioni, amica è carino comunque, che c’è di male, però se a te non va bene, magari vediamo di cambiarla, non so, se proprio ci tieni, a me non dispiace se mi presenti come amico, però non vuol dire che non provi dei sentimenti per te, anche se non so bene quali, però insomma mi pare che si sta bene insieme, che poi bisognerebbe capire cosa significa stare bene...”
“Mi correggo, non siamo neanche all’A.”

Per ovvi motivi i problemi cominciarono quasi subito, e lì il Moment risultò insufficiente. Una sera sperimentai tre bicchieri di Prosecco a stomaco vuoto e mi resi conto che funzionavano.
Ma non è che si può finire alcolizzati per un rincoglionito.
Quindi dissi basta agli analgesici, lo portai a mangiare una pizza e mi armai di aspirapolvere.
“Senti, io sarei un po’ stufa di questa relazione amorfa. Forse è il caso di chiarire le cose”
La parola “chiarire” sul nebuloso ha l’effetto di uno spray al peperoncino.
“CHIARIRE?! Perché? Cioè cosa, che motivo c’è, io non lo so, dimmi cosa intendi, io posso pure provare, però non so, non ti garantisco, però dai, per te ci provo, io ci tengo, anche se non so davvero…”
- I signori hanno scelto che pizza prendono?
“No, un attimo solo, ci scusi.”
- Prego prego, fate con calma.
“Voglio capire cosa provi per me e che valore dai al nostro rapporto.”
Detto così può sembrare uno stile un po’ troppo Corte di Norimberga. Non mi sarei mai sognata di fare un interrogatorio simile ad una persona normale, ma avevo deciso di andarci giù pesante. O la va o la spacca. E la spaccò.
Il nebuloso si arrotolò su se stesso e cominciò a contorcersi come un pitone.
“Che ti prende?”
“No è che a me queste domande così mi agitano, io non sono il tipo che…, io…io…Ecco. Io sono un po’ confuso.”
Sono confuso. Eccola lì la prima boa dei nebulosi. Come se la confusione ti prendesse all’improvviso tipo attacco cardiaco e gli altri non devono farti agitare. Ma io non mollai.
“Questa non è una risposta. Devi deciderti.”
“Mah, beh, non è semplice, così su due piedi, non lo so, non so decidermi lo sai”
Nel frattempo il cameriere ci ronzava intorno con il blocchetto delle ordinazioni.
“Nella vita si fanno delle scelte.”
“Beh sì, immagino di sì, è solo che io non sono il tipo deciso, io non so scegliere..”
“Se sai cosa vuoi, certo che sai scegliere. Guardati dentro, chiediti cosa vuoi, rispondi a te stesso e poi…”
A quel punto il cameriere si avvicinò e disse discreto
“Scusatemi, ma se il signore proprio non sa cosa scegliere, abbiamo anche degli ottimi primi piatti.”
……………

In effetti quella sera le uniche decisioni prese furono una margherita, una carbonara e un calcio in culo.

Quasi tutte le mie amiche sono incappate in un nebuloso. Una in particolare ha tutta la mia solidarietà perché ha vissuto nella nube per circa otto anni.
Alla fine lei, stremata, gli chiese:
“Io voglio sapere se tu mi ami.”
Spray al peperoncino.
“IO?”
“Tu, sì tu. Con chi pensi che stia parlando, con il tuo cappotto?!?”
Considerate che il passo dallo stremato all’isterico, è breve.
“Io…io penso che…cioè non lo so se…vabbè diciamo che…Io ti…ti stimo molto!”
“Che cazzo me ne frega che mi stimi? Io voglio sapere se mi ami!”
“Io…non lo so, cioè penso che…io sono confuso.”
Prima boa.
“Sei confuso da quando ti conosco, adesso ti sconfondi e mi dici se mi ami oppure no. E stai attento a quello che dici perché se mi rispondi sì, noi ci sposiamo entro l’anno.”
Drrrrrrrranghete.
“Oh…beh…mah…aucch..spich…stump…spof….zac…..”
Nebuloso in corto circuito. Ma poi…
“Ho una grandiosa idea! Prendiamoci una pausa di riflessione!!!”
Puntualissima, la seconda boa del nebuloso. La pausa, alias: periodo durante il quale chi chiede la pausa fa quello che gli pare, alcuni fanno anche figli, e chi la subisce sta a fissare giorno e notte il cellulare finché gli occhi non chiedono pietà.
Di solito quando la pausa la chiede la donna, è l’anticamera della fine. Quando la chiede l’uomo, è perché c’ha un’altra tra le mani e vuole spassarsela senza sensi di colpa.
“Grandiosa idea una mazza. Durante l’ultima pausa te nei andato a riflettere in Brasile. Io voglio una risposta adesso. Mi ami o no?”
“Io, non lo so…”
“Non lo sai? Ok. Per me va bene così. Per me non saperlo equivale ad un no. Io e te non stiamo più insieme. Adesso vattene.”
“NO! ASPETTA!”
Altra particolarità del nebuloso: il terrore delle posizioni chiare. Lasciarsi vuol dire comunque prendere una decisione ed in un certo qual modo uscire dalla nube. Ammaccati, ma alla luce del sole. E il nebuloso ODIA la luce del sole.
“Aspetta…aspetta, cosa sono queste decisioni affrettate, piccicucci…”
“Niente piccicucci. O mi ami o no. RISPONDIMI!”
“Io…beh…ecco. CI SONO!!! Io…”
Tataaaaaaan…
“Io?”
“Io….TI HO AMATA. Ecco. Di questo ne sono sicuro. Infondo è già qualcosa no? Sì, io ti ho amata, un periodo. Di questo ne sono certo.”
E su questa certezza incrollabile, soprattutto molto utile per un futuro insieme, calò finalmente il sipario.

Io penso che i nebulosi siano una vera piaga sociale. È colpa loro se relazioni sterili si protraggono per anni e poi dinanzi alle decisioni importanti naufragano lasciando alla deriva povere ragazze stordite. Bisognerebbe istituire nelle scuole l’ora di difesa personale contro il nebuloso.
“Se un uomo vi dice - non so cosa provo per te, ma poi perché imprigionare i sentimenti in una squallida definizione? - invece che fare sì con la testa con il sorriso idiota da musa del poeta, sferrategli un gancio sulla mandibola, qui, proprio qui dove c’è l’osso, e scappate.”
Troppe donne ci cascano ancora. E con la loro accondiscendenza peggiorano la pericolosità del nebuloso, che può passare di sprovveduta in sprovveduta fino agli ottant’anni.
Ultimamente ho letto di un problema simile sui giornali: i piccioni.
Questi ratti volanti scagazzano nelle nostre città facendo danni serissimi a edifici e monumenti. Portano malattie, sono sporchi e puzzano. Eppure c’è un esercito di ignoranti che ancora da loro da mangiare. Per chissà, non fossero già abbastanza paffuti. Un piccione di Piazza San Marco pesa più di un bambino indiano.
Il Comune di Milano, però ha avuto un’idea niente male: attirare i piccioni in zone apposite in cui sottrarre loro le uova, così da limitare la riproduzione.
Chissà che la strategia non si possa applicare anche ai nebulosi: attirarli tutti in una zona recintata, pagare delle attrici che si prestino a fingere confuse relazioni, previo tassativo divieto di figliare, e arrivare così ad una dolce, graduale, indolore…ESTINZIONE.

martedì 27 aprile 2010

L'amore ai tempi della Sip

Chi ha meno di vent’anni probabilmente non sa neanche di cosa stia parlando.
Chi è sui trenta invece dovrebbe ricordare che un tempo la SIP, antenata della Telecom, era l’unico modo per comunicare con gli/le spasimanti, a meno che non si volesse ricorrere alle Poste Italiane. Ma in tal caso bisognava mettere in conto che nel frattempo l’interessato/a avrebbe anche potuto mettere su famiglia.
Sono certa che cellulari e Internet abbiano influito in maniera determinate sulle relazioni. Non so se in bene o in male, ma di certo hanno snellito le procedure. Ai tempi dei miei primi flirt era tutto più rocambolesco. E non farò la nostalgica dicendo “ma anche più romantico”, perché non lo era affatto. Qualcuno mi può segnalare qualcosa di più raggelante della voce cavernosa del padre del tuo fidanzatino che ti grugnisce al telefono “Umpf, chi lo vuole?”.
Adesso siamo abituati al fatto che al cellulare risponda il suo proprietario, ma un tempo era una roulette russa. Chi risponderà? La mamma esaurita, il fratellino stronzetto o la nonna rincoglionita? Fatto sta che quel deficiente non rispondeva mai.
Prima di comporre il numero ci voleva un esercizio yoga.
“Ok, su, con calma dai. 758127. Oh. Brava.”
Tuuu – tuuuu
“ Vedi. Sono solo sei innocui numeri, adesso ti risponde lui e vedrai che andr…..”
“PROOOOOOOONT’”
No! La nonna…
“CHI PARLA?”
“B-B-buonasera sono un’amica di Osvaldo, me lo può passare?”
“La rubrica dello smeraldo? No, no, non voglio niente.”
“OSVALDO! Suo nipote..”
“Lo smeraldo sulle ruote? E che robb’è?”
“SIGNORA MI PASSA OSVALDO!?!?!”
“Ah…Osvaldo! Un momento.”
“Osvaldinoooooooo! Vieni a telefono, bell’a nonna. Ci sta ‘na signorina scostumata che allucca com’ a che.”

Ma questo è niente. Il telefono fisso era un’inesauribile fonte di figuracce per ricevente e richiedente.
Un’estate la mia amica Giulia agganciò un tizio belloccio che si faceva chiamare Mito. Il suo vero nome nessuno glie lo chiedeva perché “Mito” gli stava a pennello. Era fortissimo in tutti gli sport, era simpatico e molto popolare. Ma la migliore delle sue specialità Giulia la scoprì a fine agosto: la fuga. Mito sparì senza lasciare nessun messaggio o recapito, ma lei si mise sulle sue tracce come un setter inglese e alla fine arrivò a scoprire cognome e residenza invernale, e quindi numero telefonico, del fuggitivo.
Giorno X, ora X, casa di Giulia. Scopo della missione: mandare Mito a fanculo così da ribaltare la posizione della mia amica da scaricata in scaricante.
Io fui convocata in qualità di supporto alle operazioni belliche.
“Ok. Ci siamo, sei pronta?”
“Sì. Vai.”
Giulia compose il numero sotto mia dettatura.
Mancava solo il tamburo per fare il rullo.
“AIUTOOOOO! SQUILLAAAA!!!!”
La cornetta volò in aria come una bomba.
“MA CHE FAI?!?!”
“Non ci riesco, chiama tu, poi me lo passi.”
“Ok. Ma stai calma.”
“Sì. Vai vai!”
Richiamo e mi risponde una voce femminile adulta. Certamente la madre.
“Pronto?”
“Buonasera signora, c’è Mito?”
“CHI?”
“M...Mito”
“Mi dispiace, ma qui non c’è nessuno che si chiama così, lei chi cerca?”
“Io..io cerco un ragazzo che ho conosciuto al mare…un ragazzo che fa surf..”
“Aaah..sì, mio figlio, un attimo. Filomeeeeeeenooooo! A telefonoooo!”

FILOMENO!!!!

“PRRRRRRRRRRRRRRR”
Prima che riuscissi a reprimerla, dalla mia bocca fuoriuscì la più clamorosa della risate a pernacchia, la peggiore di tutte, quelle che più si cerca di reprimerle, più esplodono senza ritegno, peggiorando irrimediabilmente la situazione.
Missione fallita: riagganciare.
Quando finalmente riuscii a riferire a Giulia il vero nome del suo Mito, la vidi afflosciarsi come un paracadute che tocca terra. Non so se per lo shock di essere stata con un Filomeno o per l’onta di essere stata mollata da un Filomeno. Forse entrambe. Ma insomma, Filo?! Se non vuoi divulgare un’informazione scomoda, li devi istruire un po’meglio i testimoni!

Una cosa del genere oggi, con i cellulari, non sarebbe accaduta. E non si sarebbero mai verificate le situazioni di seguito descritte in ordine crescente di imbarazzo, tutte realmente accadute. Non tutte a me, per fortuna.

Driiiiin
“Pronto?”
“Ciao cara! Sono Anna!”
Hi! Anna Russo! La stronza che mi ha soffiato il ragazzo!
“Che vuoi?”
Un attimo si silenzio un po’ imbarazzato.
“I…io volevo dirti che giovedì prossimo mi laureo, poi festeggio a casa mia. Avrei tanto piacere se venissi anche tu! Ci vediamo di rado ma io penso che dovremm…”
“Taglia corto, iena ridens. Tu mi stai invitando solo per farmi crepare di invidia. Sai quanto me ne frega di te e di quel demente obeso? Andate a morì ammazzati tutti e due.”
Sbam.
“Chi era al telefono?”
“Nessuno, mamma. Una cretina.”
“Ah! Vedi che stamattina ha chiamato la figlia di zia Iole. Ci teneva ad invitarti alla festa della sua laurea. Non ricordo mai come si chiama quella benedetta ragazza.”
“Per caso…Anna?”
“Anna, sì. Anna.”

Driiiiiin
“Pronto?”
“Ciao sono Virginia”
“Ciao Virginia come stai?”
“Male, male. Sto male. Nicola mi ha lasciato, è tornato da Rita. Quel disgraziato. Ma io sono certa che lo ha fatto solo perchè lo pressava troppo per gli alimenti. Tu capisci? Lui torna da lei, lei la smette di chiedergli soldi e lui è contento. Ma che uomo è? Ah, ma questa volta me la paga, eh. Me la PA-GA! Vado da Rita e le spiattello tutto. E tu non cercare di fermarmi eh!”
“No, però..”
“No! Non cercare di fermarmi perché io per ascoltare te tante volte, ho lasciato correre. Questa volta per favore non mi FER-MA-RE!”
“Non ti voglio fermare, Virginia, però ti passo mamma, perché forse è con lei che volevi parlare.”

Driiiiiiin
“Plonto chi è?”
“Ciao! Mi passi Francesco per favore?”
“Io tono Paolino.”
“Sì Paolino, ciao, mi passi Francesco?”
“Ho fatto la cacca.”
“Ah.”
“Tu la fai la cacca?”
“Eh, beh, certo…che carino... Mi passi il tuo fratellone?”
“No. La mia cacca puzza. La tua puzza?”
“Vabbè dai, chiamo dopo.”
“Checco sta qui”
“Bene! Me lo passi per favore?”
“Tu dici plima che fai la cacca che puzza.”
“Eh eh..Paolino Paolino.. passami Franceschino!”
“No. Fai la cacca che puzza. Dicilo!”
Scordatelo, dannato moccioso.
Dopo dieci minuti: “Plonto?”
Ma porca di quella…
“Paolino, tesoro, sono sempre io, mi passi Francesco?”
“Tu sei quella che fa la cacca che puzza?”
“No, sei tu quello. Passami Checchino per favore”
“Checchino mio. Tu blutta.”
“Io brutta? Perché? Ma come, io ti voglio così bene! Ti porto un ovetto Kinder?”
“No. Dicilo che fai la cacca puzza.”
“Piccolino… perché non mi passi Francesco e poi vai a vedere i cartoni?
“Cattoni blutti e puzzi come te. Checco mio, tu via.”
Piccolo bastardo cornutino, hai vinto.
“FACCIO LA CACCA CHE PUZZA, CONTENTO?”
“Non particolarmente. Ma immagino sia normale.”
“Francesco….”

E vogliamo fare un pietoso accenno a quei simulacri che ancora si possono osservare e fotografare in qualche angolo di strada? Le cabine telefoniche?
Quando la telefonata era veramente privata e non si poteva rischiare che tuo padre ti urlasse alle spalle “Attaccaaaa! Devo chiamare l’idraulicooo!”, allora si ammazzava il porcellino e si scendeva in strada con le tasche da cinque chili l’una.
Dopo aver ascoltato assurdi stralci di conversazioni altrui, arrivava il proprio turno per esibirsi nell’umiliante tentativo di tenere in piedi una relazione alimentando contemporaneamente quel mostro ingoiamonete. Nel bel mezzo della conversazione puntualmente arrivava l’autobus che restava bloccato dalla Fiat Uno in doppia fila. E giù con il clacson degno di una nave da crociera. Ovviamente il discorso restava in sospeso, ma il flusso di monete no.
“Scusa, mi stavi dicendo?”
“No, mi chiedevo se ti andava di bere qualcosa insieme per parlar…”
Peeeeeee! Peeeeeeee! Machicazzhalasciatstamachinquammiezzmannagg…
“Come dici?”
“Dicevo che magari potremmo parlarne di persona se tu mi dici a che ora…”
Peeeeeeee! "Escusatemaquilacabinaèdituttivoistatedatreoreiodevochiamareamiofigliochestaavercelli.."
“Sì, sì solo un attimo di pazienza, signora”
“Cosa? Ma con chi parli?”
“Con una signora che deve chiamare, senti allora ci vediamo stasera verso le nove al…”
“UEIOVADODIFRETTACHEMIOFIGLIOPOIESCEEQUANDOLOTROVOPIU’”
“Pronto!?! Non ho capito alle nove cosa?”
Peeeeeeeeeeeeeeeeeeeee!
“Ci vediamo alle nove al bar…”
Tlak.
…del Corso. Fine delle monete, fine della storia.
Un porcellino scannato per niente.


Insomma, se esiste qualche nostalgico che rimpiange i tempi della Sip, i motivi sono due. O era single, o si chiama Paolino.

giovedì 8 aprile 2010

La betoniera

Con i primi tepori primaverili si riaffaccia l'incubo dei chili di troppo.
Nelle vetrine delle farmacie fanno capolino i prodotti snellenti, in tv si cominciano a vedere le solite castronerie dimagranti, lungo i viali compaiono i maratoneti della domenica. Tutto ciò mi ha fatto tornare in mente un ex-emplare.
Di solito sono le donne ad essere ossessionate dal proprio sovrappeso.
Io chiaramente ho beccato l’eccezione.
Personalmente non ho mai messo la pancia in cima ai difetti fisici intollerabili in un uomo. Molto peggio i piedini numero 37 su un uomo alto 1 e 80. Oppure la carnagione glabra, bianca e trasudata tipo caciocavallo.
Quindi non notai più di tanto i chili di troppo di questo campione. Ma ci pensò lui a farmeli notare: quello che per me non rappresentava un problema, per lui era una tragedia. Seppi che non era mai stato un figurino, ma poco prima di conoscermi era stato operato di non so che. La cosa gli aveva procurato un drastico calo di peso. Rimessosi dall’operazione si era ritrovato con il fisico asciutto che aveva sempre desiderato. Gasatissimo per l’inatteso risvolto, l’ex barile aveva cambiato atteggiamento e guardaroba: la cintura si stringeva e l’autostima si espandeva. Aveva comprato una moto nuova, si era fatto un nuovo giro di amicizie, aveva cominciato a frequentare palestra e locali alla moda e si era fatto pure un tatuaggio: una piccola rosa sul bicipite.
Ma l’idillio con la bilancia era durato poco. La natura crudele si era presa la rivincita su quell’alzata di cresta e gli aveva riaffibbiato tutti i chili persi con gli interessi.
Le magliettine attillate ormai gli si fermavano all’ombellico, e la madre ne aveva fatto tutte pezze per la polvere. La palestra venne sostituita con il ristorante e la comitiva di fusti e veline con i vecchi compagni d’infanzia, occhialuti e stempiati.
Del periodo d’oro restavano solo la moto, inutilizzata perché non c’erano più locali vip da raggiungere, e la rosa sul braccio, che ormai sembrava una verza.
Io lo conobbi proprio in questa fase di ritorno al passato.
Andavamo sempre al ristorante e lui mangiava come un brontosauro. Però mi parlava sempre di quanto fosse in forma sei mesi prima e a riprova mi mostrava continuamente le foto di quel periodo. Un vero e proprio piccolo book fotografico. E allora capii che non si era mai rassegnato.
Imperterrito, continuava a fare acquisti per due taglie di meno. Le commesse lo guardavano un po’ perplesse, un po’ pietose.
“Per quando dimagrirò.”
“Sì, sì, certo.”
Un giorno, al ristorante, tirò fuori una confezione di Kilocal.
“Dice che funzionano.”
“Dice? Chi?”
“La televisione”
“Ah, e allora…”
Dopo aver ingoiato il pasticcone, il poveraccio ordinò tre assaggi di primo e quattro di secondo.
“La televisione dice chiaramente che si può mangiare tutto. Vedi? Anche sulla confezione c’è la figura di un piattone di spaghetti e di un pollo arrosto.”
Ovviamente i chili aumentarono e l’ex-emplare aveva sempre più l’aria affranta di una balena spiaggiata.
Finché un periodo notai una strana luce nei suoi occhi oltre che un leggero calo di peso ed un certo pallore.
"Questo mi nasconde qualcosa".
Quella sera non volle andare al ristorante ma in un lounge bar, (che si chiama così perchè il conto è sempre molto lungo da digerire). E ordinò solo una costosa bottiglia di champagne.
"Festeggiamo qualcosa?"
E magari mangiamo anche qualcosa, visto che c'ho un buco allo stomaco...

"Mmm...no, avevo solo voglia di un buon champagne francese."
"Ah, che bello. Hai già cenato?"
"Io? Mah, sì spiluccato qualcosina a casa."
Ok, faccio un salto nella rosticceria affianco, butto giù un paio di crocchè e poi torno a fare sta pagliacciata.

"Io vado un attimo a comprare le sigarette."
"Ma che fai, fumi?"
"Io? beh..no...ho solo voglia di una buona Philip Morris americana."
Mentre uscivo mi accorsi che il cetaceo ingurgitava furtivamente una pillolina.
Tornai al tavolo, lo perquisii e scoprii che si trattava di un farmaco inibitore dell'appetito, in altri termini di un anoressizzante.
“Lo so, lo so, il bugiardino è un po’ drastico, ma ti giuro che è esagerato. È l’unica cosa davvero efficace. Me le sono fatte arrivare dalla Svizzera. Comunque non è il caso di allarmarsi. È un farmaco a base di erbe naturali e non ha alcun effetto collaterale, alcuna controindicazione, difatti io sto beniiissiiiiii….”
Sbam. Il balenottero si accasciò al suolo svenuto.

Per fortuna al lounge sono previdenti e si fanno pagare prima.

Al pronto soccorso il moribondo se la cavò con una lavanda gastrica e una grande figura di merda con il medico di turno che gli chiese sarcastico: “Dottò, ma che tenevate paura della prova costume?”

Dopo quello spavento, il trippone decise di mettersi seriamente a dieta. Seguiva pedissequamente le indicazioni del dietologo. Era precisissimo con le quantità. Un caffé ed un frutto al mattino. 50 grammi di pasta a pranzo. Una fetta di carne bianca con verdura la sera. Un cucchiaio di olio al giorno. Non sgarrava di una virgola.
I tre cornetti, le quattro pizzette, le sette salsicce e le tre tavolette di cioccolato al giorno che c’entravano? Lui quello che il dietologo gli aveva scritto di mangiare, lo mangiava.
E allora perché quella maledetta bilancia segnava sempre lo stesso peso e anche di più?

Dopo un mese di questa “dieta” si arrivò alla paranoia pura.
“Dillo che sono grasso, dillo!”
“Ma no, dai non sei grasso, sei robusto”
“No, dimmelo, così io mi mortifico e poi mi metto a dieta.”
“Ok, sei grasso.”
“Sul serio?”
“Sì. Sei grasso.”
“Oddio…oddio… anche tu pensi che io sia grasso! Io mi uccido.”
“Ti dovevi mortificare, non suicidare.”
“E tu perché mi hai detto che sono grasso?”
“Io ho detto che sei grasso? Quando mai! Sei solo robusto!”
“No. Dimmelo che sono grasso. Dimmelo così mi mortifico e mi metto a dieta.”
E via così fino allo sfinimento.

Dopo qualche tempo, l’ex-emplare iniziò a sfiorare i limiti dell’obesità. E la paranoia diventò schizofrenia.
Una Pasquetta lo osservai mentre ingeriva un gigantesco coniglio di cioccolato, e pezzetto dopo pezzetto faceva questo lucido discorso: “Ho letto un articolo interessantissimo – gnamgnam - secondo una recente ricerca pare che gli zuccheri siano i responsabili principali dell’aumento di peso – gnamgnam - In pratica chi non mangia dolci può mangiare serenamente tutto il resto senza paura di ingrassare –gnamgnam -questa per me è una grande notizia, perché io non sono un goloso – gnamgnam- Io preferisco il salato - gnamgnam - dolci, torte, cioccolato, teneteveli pure, non ci vado appresso - gnamgnam – soprattutto il cioccolato poi, stranamente non mi ha mai fatto impazzire – gnamgnam -”
Non chiamai la Neuro solo perché avevo esaurito il credito del cellulare.

Al mare mi pareva di essere in compagnia di una donna con le mestruazioni. Pantaloncini, teli da bagno attorno alla vita, magliette, canottiere, e mille altri espedienti per coprirsi. E poi fughe isteriche in acqua al momento di fare il bagno, dopo di che uno sguardo furtivo per controllare che nessuno lo guardasse e via…! Spalmato sull’asciugamano a pancia sotto.

Non ne potevo più. Lo stress di quella situazione alla fine ebbe un effetto dimagrante. Ma sulla persona sbagliata. Me.
Ogni volta che qualcuno mi diceva “quanto sei dimagrita, stai benissimo!” potevo sentire i denti del leone marino che digrignavano rabbiosamente.
“Tu lo fai apposta a dimagrire, per farmi dispetto.”
“Ora che mi ci fai pensare, in effetti è vero. Perché non ti fai venire pure il complesso che sei basso, così io per dispetto mi allungo anche un po’?”
“SONO BASSO!?!”

Per la verità mi dispiaceva tanto che la prendesse così male. Più che incoraggiarlo a dimagrire, lo spingevo ad accettarsi per quello che era. Ma non c’era verso. Più si disperava, più si allargava come una gondola. Grosso come un camion e nervoso come uno yorkshire.

Una volta, a Roma, facevamo una passeggiata sul Lungotevere e io gli facevo la solita appassionata lezione sugli effetti positivi del volersi bene: “…capisci cosa intendo? Se tu la smettessi di infagottarti pure con quaranta gradi, se cominciassi ad accettare il tuo fisico, e non pensassi più di cambiarlo, staresti meglio psicologicamente, e la smetteresti di mangiare anche i gusci delle cozze…”
All’improvviso un tizio con un Ape passò accanto a noi, rallentò un poco e gridò “ABBELLA! MA CHE CE FAI CO’ STA BETONIERA?”. Poi impennò e ripartì. Proprio così, impennò con l’Ape.
“Ma tu vedi che cafone idiota, che si schiantasse contro un palo.”
“Gli hai fatto l’occhietto.”
“IO!?”
“Sì, si è fermato e ha detto così perché tu gli hai fatto l’occhietto da lontano.”

E va bene l’autostima, e va bene lo star bene con se stessi, e va bene il disagio psicofisico, e va bene il condizionamento impostoci dai modelli odierni, e va bene la necessità di raggiungere un punto di equilibrio tra benessere interiore ed esigenze sociali, e va bene che uomo di panza uomo di sostanza, e va bene che il corpo è solo l’involucro dell’anima……………………
………………………MA IO CHE CI FACCIO CO’ STA BETONIERA!?!?!?!

martedì 30 marzo 2010

In-Compatibility

Pochi lo sanno, ma esiste un modo molto semplice, efficace ed economico per conoscere il destino di durata di una coppia.
Se tutti lo usassero per tempo, il numero di matrimoni falliti diminuirebbe sensibilmente. Il kit anti-strazio è contenuto in una scatola di cartone e costa circa trenta euro. Il suo nome è “Compatibility”. In teoria è un gioco di società, in pratica è un salvavita.
Peccato però che pochi lo prendano sul serio. Si può trovare nei negozi di giocattoli ma sarebbe più opportuno se si vendesse in farmacia, accanto ai test di gravidanza. E allora sì che la gente inizierebbe a riflettere bene sul risultato.

Non starò a spiegarvi le regole, ma vi accenno il principio attivo: in pratica si tratta di associare delle carte con delle immagini ad un concetto estratto a sorte. Ognuno gioca per sè ma bisogna essere in coppia. Esempio: viene estratta la parola “desiderio”. Ogni giocatore sceglierà dal proprio mazzo tre immagini che secondo lui sono associate alla parola "desiderio" (es.: spiaggia tropicale, villa, denaro). Vince la coppia che associa le stesse carte alla parola estratta. Perciò si chiama Compatibility, perchè misura la compatibilità di coppia.

Detto così sembra un innocuo passatempo per serate invernali. In realtà è una bomba capace di far saltare ciotoline di arachidi e nervi, salotti e parolacce.

Una domenica sera come tante a casa di amici, tre coppie di fidanzati, patatine, birra, cioccolatini.
“Ragazzi stasera facciamo una cosa diversa, giochiamo a Compatibility, me l’hanno regalato per il compleanno, pare sia divertente.”
“Ma sì dai!”
E allora si tira fuori la scatola nera. Sì, la parente di quella dei disastri aerei.
“Ok, ad ognuno il proprio mazzo con le immagini. Adesso estraggo la parola. Signori è uscita la parola…PAURA. Cinque minuti da adesso per scegliere tre immagini secondo voi associate alla parola “paura”.
Dopo cinque minuti…
“Una coppia alla volta scopra le carte, iniziamo da Angela e Ivo.”
La terna di Angela associata alla paura è: mare, bambino, anziano.
“Ma tesoro, che carte hai scelto scusa? Il mare!?! Hai paura del mare?!”
“Sì, tesoro. Non so nuotare.”
“Ancora non hai imparato? E il corso di nuoto?”
“Non ci sono andata amore, volevo dirtelo, ma non me la sono sentita.”
“Santo cielo! Sai quanto mi è costato quel corso?”
“Non ti preoccupare, ho convertito l’abbonamento in massaggi anticellulite.”
“Hai fatto male perché se un giorno dovessi cadere in acqua, quei cuscinetti ti tornerebbero utili!”
“Quanto sei stronzo!”
“Hei Hei! Magari ne parlate dopo. Andiamo avanti.”
“E il bambino? Che vuol dire?”
“Che ho paura di restare incinta.”
“Ma se prendiamo precauzioni? E poi io penso che al mondo ci siano cose ben più gravi…”
“Ivo, scusa, potreste parlarne dopo?”
“Ok, ma voglio sapere perché hai messo l’anziano. Hai paura di invecchiare?”
“No, ho paura di tua nonna.”
“Mia nonna! E che ti ha fatto!?”
“Ogni volta che salgo a casa vostra mi dice – io ti faccio fuori – ”
“Ti ho detto mille volte che nonna è malata.”
“No, è pazza. E pericolosa.”
“RAGAZZI, RAGAZZI! Su è un gioco! Forza Ivo, scopri le tue carte.”
Terna di Ivo sulla paura: orologio, autostrada, bancomat.
“Adesso questa ce la spieghi.”
“Certo: orologio per la paura di arrivare in ritardo ad un appuntamento, autostrada per la paura di restare senza benzina, e bancomat per la paura che mi venga clonato.”
“E tu hai il coraggio di dire a me che al mondo ci sono cose ben più gravi?”
“Concepire un bambino non dovrebbe far paura a nessuno.”
“A me tanto meno considerando le tue ultime prestazioni.”
“Ma stai zitta tu che entri nella vasca da bagno con i braccioli”
“Ivo smettila o stasera ti facc..”
“RAGAZZI BASTA! È solo un gioco. Angela e Ivo: zero punti. Su proseguiamo”

Il gioco continua e si estrae un’altra carta: SEDUZIONE.
“Mmmmh. Questo giro ci divertiamo.”
“Tocca prima ad Ernesto e Lucia. Forza Ernesto scopri le tue carte”
Auto sportiva, bancomat, collana di perle.
“Che significa scusa?”
“E’ovvio: tutte cose che fanno colpo sulle donne, no? Auto, soldi gioielli…”
“Non mi sembra che io abbia badato a queste cose quando ci siamo conosciuti.”
“Vabbè ma tu che c’entri con la seduzione?”
“Cioè!?”
“Forza, forza! Lucia scopri le tue carte.”
Croce, prete, chiesa.
“E no Lucia! Anche mentre giochiamo mi tiri fuori il solito sacrario!”
“Ernesto caro, io per sedurre mi affido al Cielo, prego e supplico i Santi di darmi questo dono.”
“Ah, ecco. Perciò ti fai il segno della croce prima di venire a letto. Veramente molto seducente.”
“Che vuoi dire? Faccio il mio dovere di donna con abnegazione e spirito di carità, contravvenendo per amore anche ai sacri dettami della Chiesa Cattolica Romana.”
“Amen”
“Non bestemmiare!”
“A te la scuola dalle suore ti ha proprio fatto male.”
“Che ne sai tu di scuola che non ci sei praticamente mai andato.”
“Meno male. Almeno mi sono divertito da giovane.”
“Mentire ai genitori, ripetere ogni classe minimo due volte, tu lo chiami divertirsi? Io lo chiamo peccare.”
“Tu chiami peccare pure passarsi il roll-on sotto le ascelle”.
“E allora tu non pecchi da tanto.”
“HEI HEI! Basta! Zero punti anche per Ernesto e Lucia.”
Il gioco al massacro procede.

Terzo giro, terza carta: FUTURO.
“Dora e Luca, tocca a voi. Prima Dora.”
Dora scopre le sue carte con un sorrisetto un po’teso.
Abito da sposa, casa, bambino.
Messaggio piuttosto chiaro. Gli occhi di tutti si piantano su Luca che deglutisce e si allarga il collo della camicia.
“Oh ragazzi, avete visto l’altro giorno il Grande Fratello? Ma roba da matt..”
“Luca scopri le tue carte.”
“Certo, certo. Ah! Sapete che mio padre si è fatto il palmare nuovo? Un gioiellino, un vero portent..”
“LUCA SCOPRI LE TUE CARTE!”
“O-ok.”
Pallone da calcio, tavola da surf, motocicletta.
“E per te questo vorrebbe dire futuro?”
“Te-tesoro, c’è un equivoco, i-io avevo ca-capito sp-sp-sport!”
“NON PRENDERMI IN GIRO! Ha ragione mia madre. Non mi sposerai mai. MAI!”
“Dora, su, è un gioco, non è il caso di farne una trag..”
“FATEVI I FATTI VOSTRI! Quale gioco e gioco! Questa è la mia vita. LA MIA VITA!!! Brutto stronzo. Pallone, surf e moto…TE LI FACCIO VEDERE IO! BASTARDO!”
La manche finisce con Angela e Lucia che sostengono Dora in lacrime fino al bagno.

“Sì, vabbè Luca, però pure te! Posso capire che nel tuo futuro immagini una moto e una tavola da surf nuove… ma il pallone te lo potevi risparmiare. Ce lo potevi ficcare un bambino!"
“Mannaggia, c’ho pure pensato! Però poi mi sono venuti in mente i Mondiali di quest’anno…”
“Embè, in effetti.”
“Ma sì dai, se l’Italia vince le chiedo di sposarci.”
“Oh. Bravo. Io ad Angela lo chiedo appena muore mia nonna. Sapete com’è…mi lascia la casa…”
“Ecco perchè tua nonna vuole farla fuori.”
“Io mi sa che finché non passo il corso di cresima non se ne parla. M’hanno bocciato per la terza volta. E comunque ragazzi, che ne dite se cambiamo gioco?”
“Io direi di sì. Ora che tornano le ragazze proponiamo uno scopon…”
“SSSSSttttt!!! Idiota, vuoi far prendere un colpo a Lucia!!”
“Ops, scusa.”

Intanto in bagno:
“Adesso torni di là e sorridi. Fai finta di nulla e non ne parlate più. Fai buon viso a cattivo gioco e vedrai che alla fine cede. Gli uomini non vogliono essere pressati.”
“Ha ragione Angela. Abbi fede, prega, prega, prega tanto e alla fine vedrai che ti porterà al sacro altare”
“Ma sì. Sapete che vi dico? Scommetto che nel giro di un paio d’anni saremo tutte con la fede al dito.”
“Sì!” “Sì!” “Sì!”
“E sapete cos’altro vi dico? Questo Compatibility fa schifo. Adesso andiamo di là e proponiamo uno scopon..OPS! Scusa Lucia!”

La serata procede con un rassicurante “nomi, cose, città”.
E il risultato di Compatibility (zero per tutti) viene cestinato insieme alle carte rosse e blu dei Lindor.
Per ora…

martedì 9 marzo 2010

Il Persico

Dopo una lunga pausa, rieccomi con un nuovo ex-emplare pescato dal personale acquario di una mia amica. Dico “acquario” non a caso visto che l’ho classificato come il “pesce Persico”.
E mi spiego subito.
La mia amica, che chiamerò Stefi, all’epoca dei fatti aveva superato i trenta da un po’. Ed era single, ma aveva sempre ben sopperito con lo studio, la cultura, il lavoro ed una bella carriera in banca. Aveva avuto qualche storia ma senza troppa fortuna. Il suo tempo libero lo trascorreva tra libri, amici, mostre ed eventi culturali. E pareva contenta così. Finché non fu trasferita a Roma.
Prese casa con una collega, girò tutti i musei e le gallerie della città e si iscrisse in palestra. Ma dopo un po’ cominciò a patire una solitudine tremenda. Senza amici e lontana dalla famiglia, Stefi avvertì tutto il peso dell’essere single. E aprì la stagione della caccia. Anzi, della pesca, perché collezionò una serie di cefali, scorfani, anguille e molluschi.
Scarta di qua, prendi di là, molla giù e tira su… dopo circa un anno di affannosa ricerca l’unica bestia che riuscì a trattenere accanto a sé fu Aristide, guardia giurata, incontrato al supermercato, quello aperto anche di notte.
“Caspita, allora è vero che nelle grandi città, il supermercato è il luogo migliore per rimorchiare?”
“Verissimo. Dalle otto in poi c’è un viavai pazzesco di single che girano per ore e ore con i carrelli vuoti. Ogni tanto ci infilano qualcosa di figo, così giusto per far vedere.”
“E questo che c’aveva nel suo?”
“Un pacco di carta igienica”.
“Ah, molto figo.”

Ma ogni volta che per telefono le chiedevo di questo nuovo amore, Stefi era sempre più evasiva. Finché un giorno le dissi: “Stefi, ho come l’impressione che qualcosa non vada con questo Aristide, o mi sbaglio?”
“Beh…no. Non ti sbagli. È che lui, sai, è…”
“Cos’è?”
“Beh, non è proprio la persona che puoi immaginare.”
“E che sarà mai? Un gangster, un grandefratellino, un Papaboy?”
“Peggio.”
“Niente di meno!”
“Ha la quinta elementare, ha sei anni meno di me, non sa l’italiano, parla solo romanesco, ha otto tatuaggi di cui uno di Pamela Anderson, ha tre piercing di cui uno sull’unghia, non ha un soldo, vive ancora con i suoi e non ha la macchina. E porta il maglione dentro i pantaloni.”
“Ah. Niente più?”
“Sì: quando fa freddo porta i pantaloni nei calzini.”
“Ahia. Scusa Stefi, ma se non ti garba, perché ci stai insieme?”
“Perché è l’unico che sono riuscita a trovare. E perché a stare da sola non ne potevo più. Che devo fare? Mi sono avviata tardi e adesso prendo quel che resta.”
“Mia madre diceva qualcosa di simile quando si ritirava dal mercato con quella schifezza di pesce Persico.”
“Eh. Più o meno.”
Andiamo bene.


Dopo due mesi Stefi non ne poté più degli strafalcioni di Aristide e lo mollò.
Lui ci rimase malissimo. Anche perché Stefi era diventata la sua autista, pagava sempre al cinema e al ristorante e gli faceva un sacco di bei regali. Aristide la supplicò di tornare insieme, promettendo che sarebbe diventato una persona migliore. Stefi se lo riprese a patto di un diabolico compromesso: il Persico si sarebbe acculturato.
“Santo cielo, Stefi! Ha detto di voler diventare una persona nuova, non un’altra persona!”
“Sono stufa di un rapporto clandestino e non posso presentarmi in giro con uno così. A me basta che impari un po’di grammatica, un minimo di storia, e giusto un pizzico di arte e geografia. E Basta.”
“Basta!?!”
“Senti io non ci vado alle cene di lavoro con uno che pensa che Van Gogh sia un giocatore dell’Ajax.”
“Immagino, ma come deve fare il poverino?”
“Scuola serale, bignamini e Chi vuol esser milionario a tutto spiano.”
“Mah. Vabbè. Buon lavoro, Maria Montessori.”


Dopo qualche mese di questa serrata terapia, Stefi intravide qualche miglioramento e decise di portare Aristide ad una cena informale tra colleghi.
Le cose non andarono proprio benissimo. A partire dalle presentazioni.

“Ciao, piacere, Franco”
“Piacere, Aristide.”
“Come, scusa?”
“Aristide. Come il grande filosofo greco.”

“Piacere Aristide”
“Piacere, Sveva”
“Ah! Bella la Svevia! Ma com’è che ti chiami?”

“Ah! Ecco l’adone che ha fatto perdere la testa alla nostra Stefi!”
“La che? Scusa ma io non parlo inglese.”

Il fondotinta di Stefi cominciò a colare.
“UA AHAHAHA! Ve l’avevo detto che è un simpaticone!”
Il Persico la guardò interrogativo ma Stefi lo freddò con un triplo sguardo perforatore rotante.
E la serata proseguì. Man mano che il tempo passava, il Persico si lasciava andare sempre di più.

“Aristide vuoi assaggiare il mio patè di fagioli neri?”
“No grazie Franco, che i fagioli me fanno concertino.”
“Cosa?”
“Concertino… come te devo di’, er mitra ar cul…”
“TESORO! Tu cosa hai preso?”
“Na cotoletta alla milanesa”
“MilanesE”
“E io che ho detto? Come la fanno qui la milanesa, ah Franco?”
“Non saprei Aristide, io sono vegetariano.”
“Ah, perfetto, proprio quello che me serve. Il mio gatto so’ tre giorni che vomita. Che devo fa’?

“UHUHUH! Tesoro sei troppo forte!”
“Ma che forte, ah Stefi, er gatto sta a morì!”
Stefi lo scalciò sotto il tavolo e gli sibilò tra i denti “prl tln mbcll”.
“Che?”
“Niente tesoro”
“Boh!”
Approfittando di un attimo di distrazione generale, Stefi gli chiarì il concetto: “PARLA ITALIANO IMBECILLE!”

Tra un brindisi e l’altro, quella disgraziata serata pareva non finire mai. E l’alcool non aiutava gli sforzi di Stefi.

“Che lavoro hai detto che fai? Lo so, te l’ho già chiesto ma l’ho dimenticato. Scusami ma sono tornato ieri da New York e soffro tantissimo il jet lag…”
“Ammappa! E quanto ce mette sto jet fino a Gnuork?”

Stefi si arrese. E la smise di fare risate riparatrici. Dopo molti bicchieri, Aristide era ormai fuori controllo.
“Cameriere! Cameriere che me porta n’posacenere?”
“Qui non è consentito fumare, signore.”
“Nun voglio fumà, vogliò sputà sta cicca che m’ero appiccicato sotto er palato. Me so magnato pure la milanesa co sto gommone mbocca!”
Stefi doveva aver attuato un esercizio di metempsicosi perché non batté ciglio.

Una ragazza cercò di distogliere la tensione generale come poté.
“Cielo gente…l’altra sera sono stata ad una serata di gala al Grand Hotel dei Principi. Una roba da far girare la testa. Tutti banchieri e finanzieri”.
“Mbè? Io c’ho ‘na fidanzata banchiera e ‘n cugino finanziere. E pure uno carabiniere. Ma mica me la meno così.”
Il gelo cadde sulla tavolata finché Stefi precisò: “tu non hai nessuna fidanzata banchiera. Non hai nessuna fidanzata e basta.”
Il signor Persichetti scrollò le spalle e concluse:
“Sticazzi.”

Costretta a riaccompagnarlo a casa, Stefi glie ne urlò di tutti i colori.
“Ma che idiota che sono! Come ho potuto pensare di portarti tra i miei amici. Che figura che mi hai fatto fare, ti rendi conto?”
“Aò, datte na calmata. Ma chi te credi de esse? Er premio nobbella?”
“Ma tu vedi sto burino.”
“Io sarò burino, ma te sei na vecchia fracica che nessuno te se fila più.”
Stefi frenò da criminale:
“Scendi dalla mia macchina lurido pezzente, ignorante, bestia, zotico di merda!”
“Scendo scendo, e nu’ strillà troppo che te casca ‘a dentiera.”

Morale della faccenda: un pesce Persico non lo puoi far passare per sarago imperiale.
E se hai superato i trenta, sei donna e sei ancora single… mantieni la calma e stai lontana dai supermercati.

domenica 21 febbraio 2010

Il Mastrolindo

Una mia lettrice, Angie, mi segnala un ex-emplare su cui mi vorrei soffermare: il Mastrolindo.
Già, perché il soggetto in sé mi sembra piuttosto qualitativo. Personalmente non ne ho mai conosciuto uno, se non quello sull'etichetta del detersivo, ed è per questo che ne sono incuriosita.
Fisicamente Mastrolindo male non è, soprattutto se piace il tipo rude con capelli tutti da immaginare.
C’avrà la quinta elementare, ma di questi tempi non si sottilizza più.
Soprattutto ha i bicipiti da wressler. Uno così ti fa i pavimenti come quelli dell’aeroporto di Barcellona: sono talmente lucidi che riflettono quello che c’è sotto le gonne. Le viaggiatrici hanno protestato furiosamente contro questo suolo guardone e proposto un trattamento “mat”. Il direttore dell’aeroporto ha fatto finta di niente. Non è mica mat.

Tornando al nostro ex-emplare, io lo trovo comodo. Con un Mastrolindo in casa ti resta il tempo per fare un sacco di cose, che altrimenti non faresti mai. Non so, ad esempio controllare che prima di uscire i capelli siano in ordine anche sulla nuca.
L’altro giorno sono stata taggata in una foto su Facebook. Che sia stramaledetto quel pollaio virtuale! Sono ad una festa che ballo di profilo. A parte che sembro una scimmia cappuccina, ma poi quei capelli… Ero in ritardo e non ho fatto in tempo a passarmi la piastra come si deve. Tutto sommato mi sembrava che stessero bene. E invece ho due ciocche lisce come anguille sulle tempie e un cespo di lattuga sul retro.
Tornando alla lettera di Angie, mi rendo conto che non deve essere tutto rose e fiori con questi Mastrilindi.
Ve bene l’ordine e la pulizia, ma a lungo andare Angie si è un po’stufata di quest’uomo-ramazza ed ha approfondito il problema. Male, Angie. Dietro un problema non c’è mai una soluzione, solo un problema più grande. Infatti Angie ha scoperto una bella mamma nevrotica ossessiva da manuale. Una della razza più subdola. Quella che proclama una cosa e ne fa un'altra. Angie mi racconta che si tratta di un’accanita seguace delle filosofie orientali secondo cui “i figli vanno scagliati lontano come lance”. Ma non tanto lontano da non poter tornare ogni domenica mattina per lucidare tutta l’argenteria. Secondo me ogni madre dovrebbe insegnare ai propri figli le regole basilari del vivere in casa e farsi aiutare a tener su la baracca. Ma condannarli ad aspirapolvere forzata e straccio a vita, non si fa. Né con i maschi, né con le femmine. A meno che non decidano di pagargli i regolari contributi. Me la immagino la santona in caffettano che accende bacchette di incenso e impartisce ordini al pargolo: “Forza tesoro, mens sana in casa pulita. Lì lì, nell’angolo non hai ripassato.”
Che poi ognuna di queste vittime reagisce a modo proprio. Io ne conosco alcuni che in seguito si sono rifiutati persino di tirare lo sciacquone del bagno. E lì mi sa che il divorzio alla Sacra Rota ci sta tutto quanto.
Altri, come l’ex di Angie, si infilano il grembiulino subito dopo una cenetta a lume di candela e cominciano a scrostare le gocce di cera dalla tovaglia per finire a spolverare le foglie del filodendro mentre una poverina li aspetta in camera da letto con il babydoll fucsia addosso. Quello due taglie fa, che stringe così tanto che non si riesce nemmeno a dargli uno strillo. Quando si decidono a raggiungerla, lei ormai si è infilata il felpone grigio e russa come un procione. Loro fanno spallucce e concludono che a quel punto c’è tutto il tempo per asciugare bene i bicchieri. E che quella pezzuola fucsia ai piedi del letto è perfetta.
E no, così non va. Non ci siamo.
Il seguito della lettera di Angie chiarisce definitivamente perché il Mastrolindo sia una razza pericolosa. Uno così, a furia di detergere e lucidare, alla fine crolla. E dove va a pescare? Nel torbido.
E se ne torna dalla pesca con un’amante pericolosamente identica alla mamma santona.
No, no..too complicated for me!
Lascio a Mister Freud tutte le spiegazioni del caso e mi ritiro.
Angie, fai una cosa. Per evitare spiacevoli ricadute, la prossima volta che hai bisogno di una mano in casa, chiama una colf.

sabato 13 febbraio 2010

La protocognata Viola

Dopo la storia di Peri, non posso non parlare di Viola (che sta per Violenta).
Viola, al contrario di Peri, non era per niente gelosa del fratello, anzi, lo schifava con tutto il cuore. Non ho mai ben capito le radici di quell’odio ma mi sembra di ricordare che c’entrassero le selezioni dello Zecchino d’Oro. Pare che la piccola Viola, vinta dall’emozione, avesse annaffiato il palco con una lunga pipì e che il fratello lo avesse spifferato a tutto il mondo e, nel caso in cui a qualcuno non fosse stato chiaro, aveva corredato il resoconto di un ritrattino della sorella con microfono e laghetto giallo ai propri piedi.
La vendetta di Viola contro Caino iniziò da quel momento in poi.
A sette anni gli mozzò lo spadino del costume di Zorro, a dieci gli mise a mollo l’album Calciatori 85-86, appena completato con l’introvabile figurina di Laudrup, a dodici gli vuotò un pacco di zucchero nel serbatoio del Ciao.
Probabilmente Viola avrebbe anche dimenticando il tradimento dello Zecchino, ma devo dire che il fratello persisteva in atteggiamenti parassitari e fastidiosi. Una tosta come lei non poteva tollerare di essere imparentata con uno streptococco. Quindi aveva deciso di buttarlo fuori da quella casa, vivo o morto.
Per superare il gap fisico che li separava, Viola, che aveva tre anni meno del fratello, si specializzò in arti marziali. Quando uscì il film Kill Bill, i genitori la trattennero a stento dal volare in Giappone per procurarsi una spada katana.
Quando la conobbi io, Viola era tutta un fascio di muscoli e nervi. Il mio ex invece aveva messo su un bel fisico da allevatore di lumache.
Consapevole della sua inferiorità, era terrorizzato dalla sorella e cercava di ingraziarsela come poteva: regalini, fiori, complimenti. Questo non faceva che renderlo più viscido agli occhi di Viola e un po’anche ai miei. A me che ero la sua ragazza non regalava mai niente. Forse per ottenere qualcosa anche io avrei dovuto stampare la mia suola destra su quella sacca di ricotta che portava sotto il maglione.

Comunque se questa era la considerazione che Viola aveva del fratello, immaginate quella che poteva avere di me.
Ha dato segno di accorgersi della mia presenza poche volte, e non è stato mai molto piacevole. Una di queste meno delle altre. Mentre io e suo fratello eravamo seduti sul divano a guardare un film, Viola irruppe nel salone con la bava alla bocca.
“Pezzo di merda, hai usato di nuovo il mio cordless!”
“Io? No, te lo giuro!”
Ma che cuor di leone. Lo avevo visto io giocherellarci solo per il gusto di farla in barba alla sorella.
“Sì, e lo hai graffiato con questo anello da tamarro che porti al dito!”
“Ma vedi che ti sba…”
Il cordless gli volò giusto in bocca. A quel punto l’ameba ebbe un moto di rivolta.
“Brutta troia mi hai spaccato un labbro!”
Ecco qui, adesso ci ammazza.
Mi ero appena catapultata dietro il divano quando sentii prima un “toc” secco, poi una serie di colpi, lamenti e rantolii.
Il mio ex le stava prendendo di brutto da una Viola Karate Kid.
E chi si azzardava a levarglielo da sotto.
Quando feci capolino dal mio nascondiglio, lui era a terra in posizione verme-pallina e lei continuava a calciarlo come un vecchio tappeto. Mi fece pena e tentai una debole mediazione: “Vabbè, dai, ormai è praticamente morto…”
Viola mi guardò come se avesse appena registrato la mia presenza e sibilò:
“Stai zitta velina, questo stronzo lo picchio da una vita e non muore mai.”

Non so se rimasi più colpita dal ripetuto tentativo di omicidio o dal fatto che mi avesse chiamata velina. Cioè, immagino non volesse essere un complimento, ma della velina non ho neanche il nervo sciatico. Probabilmente per lei il mondo femminile era suddiviso in combattenti e veline. Embè, e allora sì. Mi meritavo la categoria.

Ci fu un periodo in cui la picchiatrice si calmò. E il suo calmante si chiamava Gaspare. Per il mio ex fu un periodo d’oro. La sorella prese a rivolgergli la parola, sempre accompagnata da “deficiente”, ma era già qualcosa. Una volta lui le macchiò un libro posato sul tavolo con la tazzina di caffé. Provò a far sparire il cerchietto marrone con acqua, candeggina, borotalco. Ma fece solo peggio, il deficiente, appunto. Quando si preparava ormai a fare testamento, la sorella entrò in cucina, prese il libro, guardò la macchia e sospirò. Poi se ne andò senza aggiungere altro.
Qualcuno quel giorno accese un cero a San Gaspare.
Ormai i rapporti tra loro erano così rilassati che Viola gli chiese addirittura di aiutarla nell’acquisto di un nuovo pc portatile. Lui gasatissimo navigava su Internet giorno e notte per trovarle la migliore occasione. Finalmente saltò fuori l’annuncio di un computer praticamente nuovo che il proprietario vendeva alla metà del prezzo di mercato poiché la ditta che lo aveva appena assunto glie ne aveva fornito gratuitamente un altro.
“Queste sono le occasioni da prendere al volo!”
“Sei sicuro deficiente? Io lo avrei preferito nuovo.”
“Ma questo è nuovo, solo che lo pagherai la metà! Andrò personalmente a prenderlo e lo rivolterò come un calzino. Stai tranquilla, tuo fratello fa le cose per bene.”
“Su questo ho un mucchio di dubbi, deficiente. Comunque questi sono i soldi. Vai e torna con il computer.”
Andammo insieme a ritirare il pc a casa del ragazzo, che fu molto gentile e disponibile. Talmente tanto che il mio ex ritenne poco carino mettersi lì e fare le pulci a quel bel portatile lucente, effettivamente intonso.
Tra una chiacchiera e l’altra, acquirente e venditore scoprirono di avere un sacco di cose in comune.
Ma in un altro punto della città, in quello stesso momento, due persone scoprivano invece di non aver più nulla in comune: Gaspare e Viola.
Quando tornammo a casa con il gioiellino sotto braccio, Viola era tale anche in volto.
“Muoviti idiota, accendi questo coso e levati dai piedi.”
Il fratello intuì che l’effetto Gaspare era svanito e cominciò a tremare con le dita.
Quando il pc si accese rivelando uno schermo limpido e azzurro come il cielo, tirai un sospiro di sollievo.
Ma Viola non battè ciglio.
“Sì, sì, va bene, ma adesso sparisci che c’ho un mal di testa bestial…MA CHE ROBA E’!?!”
Sul desktop stava scendendo la notte. Una banda nera si allargava sempre di più dall’alto verso il basso. Quando il buio fu totale, da un angolo dello schermo spuntò una pantegana con una mascherina sugli occhi, tipo ladro. Il roditore ci guardò per tre lunghissimi secondi, poi fece un cattivissimo ghigno e scomparve in un sinistro lampo di luce.
Il pc era morto. E anche noi.
Viola aveva speso cinquecento euro per essere derisa da una pantegana.
Prima che il fratello potesse fiatare, Viola partì con una gomitata laterale che lo fece ruzzolare dalla sedia. Che tempra, eh? Poi afferrò il cadavere informatico e glie lo scagliò sulla schiena. Infine prese uno dei fili che fuoriuscivano dalla scatola e cominciò a frustarlo come solo una negriera appena mollata dal fidanzato può fare.
Per fortuna intervenne la madre a fermare la carneficina, altrimenti sarei diventata…boh? Una protovedova?

Da quel momento in poi Viola divenne inavvicinabile. Io non salii mai più a casa loro, ma potevo vedere gli effetti del suo malumore sul mio ex.
Ormai la mia formula per salutarlo non era più "tutto bene?" ma "tutto intero?".
Lui si tastava le costole e poi rispondeva.
Se state provando pena per quest’ex-emplare, vi sbagliate.
Decine di volte gli chiesi perché non se ne andava di casa – visto che aveva la possibilità e soprattutto l'età -invece di continuare a prenderle come un somaro.
Vi riferisco qualche risposta in ordine sparso:
“Perché non so farmi da mangiare”
“Perché a casa mia c’è Sky”
“Perché non so farmi il nodo della cravatta”
“Perchè l’impianto Dolby Surround in camera mia mi è costato mille euro”
“Perché a casa solo io so leggere il contatore dell’acqua”

E l’ultima…
“Perché ormai al servizio abbonamenti di Quattroruote ho dato questo indirizzo.”

Embè, allora vai Viola, picchia duro.