lunedì 11 ottobre 2010

Ex and the Crisi

Penso che “crisi” sia una delle parole più pronunciate dell’anno in corso. E temo lo sarà anche del prossimo. Ma già prima di Madoff, della Bolla e di Tremonti questa parola era tristemente nota all’universo single-femminile come “Crisi dei Trent’anni”, che ricorda un po’ la Guerra dei Trent’anni, con la differenza che non sempre si conclude con una Pace di Westfalia.
Mettiamo subito in chiaro le cose perché già mi pare di sentire un soffuso cicaleccio di protesta: molte trentenni sono felicemente single e tali vogliono rimanere. Ok?
Ma diciamoci la verità: per una che si gode la vita, ce ne sono dieci che allo scoccare del terzo decennio mettono la ragione sott’aceto e cominciano ad agire come se avessero in testa un lampascione.
Le più sconcertanti sono quelle che, colte da una specie di horror vacui, cominciano a ravanare numeri di telefono tre le pagine dei vecchi diari scolastici e delle agendine preistoriche nella speranza di riagguantare un ex.

“Se gli piacevo allora, magari gli piaccio anche adesso!”
“Provaci pure. Ma faresti bene ad avvertirlo che hai messo su qualche chilo.”
“Santo cielo, avevo dieci anni, non si aspetterà mica che io porti ancora la 36?”
“No. Ma nemmeno la 56.”


“Scusa ma Alberico non lo avevi lasciato tu perché rubava nei supermercati?”
“Ma quelle erano sciocchezze! Oggi è un politico affermato.”
“Chissà perché la cosa non mi stupisce.”
“Fui frettolosa a lasciarlo per quel San Daniele nascosto sotto l’impermeabile.”
“Già.”
“Fosse stato un Parmacotto l’avrei perdonato. Ma un San Daniele intero mi parve davvero troppo.”
“Ma tu guarda. Bastava il prosciutto giusto e oggi eri first lady.”


“Non capisco perché ti sei messa in testa di ricontattare Olimpio. Non è già sposato?”
“Lo è. Con una donna obesa che fuma tre pacchetti di sigarette al giorno. Secondo le statistiche dovrebbe tirare le cuoia a breve. Meglio se mi porto avanti col lavoro.”


Una volta un uomo di mia conoscenza ricevette una strana telefonata da una vecchia ex:
“Hei! Da quanto tempo! Ma che piacere sentirti… Come te la passi?”
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“Ah sei tornata qui? Non vivi più a Milano? E il tuo fidanzato?”
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“Caspita, mi dispiace. E quando è finita?”
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“Ma tu vedi che razza di cretino. Mi dispiace davvero… Sarebbe carino organizzare una rimpatriata con tutto il gruppo…”
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“Sì, scusa, hai ragione, ma non posso parlare a voce più alta perché mio figlio sta dormendo...”
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“Io sì, sono sposato e ho un bambino di un anno.”
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“Va…va bene, allora a risentir…pronto? Pronto?”


Emblematico il caso della mia ex-collega Titti.
Pur non essendo particolarmente sgradevole, la ragazza (diciamo così) a trentacinque anni suonati non aveva uno straccio di fidanzato. E mostrava tutti i sintomi della trentennite acuta.
Aveva un ecoscandaglio incorporato sempre acceso e se andavi in centro di sabato mattina, avresti certamente notato un periscopio che svettava sulla folla: era lei che faceva la solita ronda settimanale.
Purtroppo l’ufficio non offriva grandi opportunità. Eravamo tutte donne a parte il capo, fermo allo stadio Australopithecus, con scarse possibilità di morire Sapiens.
Caso volle che Titti rincontrasse proprio sul lavoro il suo ex delle scuole medie: Achille, il corriere che ci consegnava i pacchi. Lei minimizzò su quel trascorso.
“Non mi ci fate pensare. Che schifo! Solo a tredici anni si prendono certi abbagli.”
E invece non era male Achille. Aveva un evidente problema con l’acqua e il sapone, ma a parte questo… forse aveva anche paura delle forbicine per le unghie, ma insomma a parte questo… beh, probabilmente era allergico allo shampoo, ma a parte questo… sì, soffriva di aerofagia flatulente ma a parte questo…
E poi era un bravo ragazzo. È vero che gli chiedevamo di lasciare i pacchi sullo zerbino e di passarci la bolla di consegna sotto la porta, ma a parte questo eravamo affezionate a lui.
Tutte noi tranne Titti che se era costretta ad aprirgli la porta lo faceva turandosi platealmente il naso.
Achille non sembrava per nulla offeso, anzi si prodigava affinché fosse chiaro che lui se la sarebbe ripresa, la sua velona.
Intanto il tempo passava e Titti era più single del Padreterno.
A nulla servivano le scollature che si abbassavano, i tacchi che si alzavano, i jeans che si stringevano e il contorno labbra che si allargava.
L’unico che apprezzava le forme e le s-labbra di Titti era Achille.

“Che bel rossetto che c’hai stamattina Titti.”
“E’ lucidalabbra e chiamami dottoressa, fetido.”

“Titti non ti sembra di esagerare? Poverino, che ti ha fatto?”
“Mi fa schifo.”
“Titti, però se fai così…”
“…fai afflosciare pure un Pampax.”
“Buongiorno capo.”
“Si dice Tampax. E comunque lo sa che questa è una molestia sessuale bella e buona?”
“Una che?”
“Una molestia sessuale!”
“Boh. Io sono un tipo modesto. Ma a te non ti sessuerei manco morto.”


Chissà, forse la profondità di questa osservazione, forse un orologio biologico più grosso del Big Bang, fatto sta che Titti rivalutò la situazione.
Quantomeno questa fu la conclusione cui giunsi dopo averla vista annodarsi ad Achille come una pitonessa nell’oscurità di una sala cinematografica.
Il giorno dopo affrontammo l’argomento in pausa pranzo.
“Complimenti Titti. Achille è un bravo ragazzo. E…un gran lavoratore. E…molto simpatico anche. Ed è…è..”
“Taglia corto. Achille è un sudicio puzzone.”
“Ma…tu…tu…”
“Io cosa?”
“Tu ieri sera ci stavi appiccicata come una figurina Panini!”
“Lo so. Ci siamo rifidanzati. E probabilmente me lo sposerò quel quarto di gorgonzola.”
“Ma… ”
“La crisi è crisi.”
“Questo è vero.”
“E comunque ogni scarpa diventa scarpone.”
“Già. Ed è meglio un uovo oggi che una gallina domani.”
“Esatto. E a caval donato non si guarda in bocca.”
“Concordo. E chi si accontenta gode.”
“Perfetto. E non è bello ciò che è bello, ma è bello ciò che piace.”
“Giusto. E non far sapere al contadino quant’è buono il formaggio con le pere.”
“?”
“Questa non c’entra. Scusa”

Titti aveva ragione. In tempo di crisi non si butta via niente. L’altro giorno ho visto un programma tv in cui una signorina mostrava come riciclare vecchia roba facendone oggetti da arredo.
Santo cielo, se quella criminale ha avuto il fegato di trasformare un microonde rotto in una fioriera …vuoi vedere che da un ex fidanzato puzzolente non ci si può ricavare un marito di prima mano?

venerdì 1 ottobre 2010

Il degente

In giro ce ne sono tanti, ma si nascondono molto bene, per cui è difficile individuarli.
Sto parlando di una specie molto ma molto pericolosa per noi donne: i degenti.
Il dizionario italiano definisce degente chi “per malattia o altro incidente è costretto a rimanere a letto o è ricoverato in un luogo di cura”.
Io invece la vedo così: il degente è quel bipede che alla prima occasione ti arroventa le orecchie e ti stira il cervello con i dettagli sulla sua ultima dolorosissima storia d’amore.
Facciamo però le dovute distinzioni: c’è chi soffre sul serio e chi soffre a comando.
Il primo è un degente autentico. Sta male davvero e se esce con voi è solo perché ormai anche il suo criceto si infila i tappi nelle orecchie appena lo vede arrivare.
Se pensate che la “sindrome della crocerossina” colpisca solo le altre donne, allora usciteci pure. Ma risparmiatevi il parrucchiere, l’estetista e il perizoma di strass. Soldi buttati. Non dimenticate però un plaid e dei viveri. I discorsi di un uomo che soffre per amore sono più lunghi e noiosi del Decalogo di Kieslowski. E comunque piuttosto che un degente, vi consiglio di adottare un monumento. Più utile e soddisfacente.
Se poi nutrite la segreta speranza di avviare una relazione con un tipo così malmesso, io vi suggerisco caldamente un mese di volontariato a Calcutta.
Parlo per esperienza diretta.
Molti anni fa mi invaghii di in un degente quasi pronto per l’obitorio.
Era estate e lui faceva il cameriere in un piano bar. Ogni sera aspettavo pazientemente che finisse il turno per sedermi a tavolino con lui e spararmi in vena tutti i particolari della tragica storia d’amore con Viviana, la sua ex.
Anche un cardellino avrebbe capito che il tizio aveva un elettroencefalogramma quasi piatto. Invece io contavo di ridurre Viviana ad un lontano ricordo in un paio di sedute.
Ma a Ferragosto stavamo ancora a “quella volta in cui io la portai a Venezia per il suo compleanno, e la stronza si mise a flirtare con il gondoliere.”
Quando l’estate volgeva al termine, la degente ero io. In posizione obliqua sulla sedia, ero collegata ad un boccettone di Negroni tramite cannuccia chilometrica, mi limitavo ad annuire di tanto in tanto e contemporaneamente tiravo su un po’ di liquido. Una sera decisi di saltare la seduta. Non ce la facevo più. La sera successiva lo trovai in stato larvale.
“Hei, che hai?”
“Ieri non sei venuta…io ti aspettavo…sono stato male senza di te.”
Ueilà, si muove qualcosa. Finalmente!
“Mi dispiace…è che non stavo bene, ma adesso è tutto ok. Però… sono felice che tu abbia sentito la mia mancanza…”
“Già. Bene. Dove eravamo rimasti?”
“Ah…uhm…a quella volta che tu chiedesti a Viviana chi avrebbe gettato giù dalla torre se te o il suo pechinese e lei rispose che ci doveva pensare.”
“Ah sì! Ma ti rendi conto?! - Ci devo pensare - Come se io e quel ratto peloso fossimo sullo stesso piano! E non ti ho ancora raccontato di quella volta che…”
“Scusa un attimo, ti dispiace se prima ordino il solito?”
…tanto è l’ultimo. Sono sicura che la sta dimenticando. Sento che si sta affezionando a me.
“Ma figurati, faccio io. Anselmo! Anselmoooo!! Porta un Negroni per…per…scusa, com’è che ti chiami?”


La seconda categoria, quella dei malati immaginari, è molto più pericolosa e infida.
Ci sono uomini che scoppiano di salute e testosterone. Ma appena gli chiedi qualcosa di più concreto li vedi impallidire, balbettare, tremare, e se necessario anche piangere.
“Oddio…cos’hai? Non ti senti bene? Santo cielo, ti ho chiesto di accompagnarmi al matrimonio di mia cugina, mica a Mauthausen!”
“No…è che… sai…ti ho mai parlato di Lara?”
“No.”
“Il fatto è che Lara è ancora una ferita aperta.”
Tra un po’ te la apro io una ferita in fronte.
“Lei…lei…oddio….”
Singhiozzo convulso.
“Parlarne è troppo doloroso per me… non so se ce la faccio.”
“Ce la fai, ce la fai…”
“No…io non ce la..”
“CE LA FAI.”
“La…Lara era la mia ex. Ci dovevamo sposare, ma un giorno lei se ne è andata senza una spiegazione. E io da allora soffro. Soffro maledettamente.”
“Non mi pareva che stanotte soffrissi tanto. E comunque pazienza, verrai sofferente.”
“Io… non ce la faccio, soprattutto ai matrimoni non ce la faccio. Ti rovinerei la festa.”
“Sarà rovinata se finirò seduta al tavolo Mughetto.”
“Cosa?”
“Il tavolo delle cugine single. Tu verrai con me e siederemo al tavolo Orchidea, quello delle cugine accoppiate.”
“Ough! Couf Couf…No…ti prego, sto troppo male. Il ricordo di Sara mi affligge.”
“Non si chiamava Lara?”
“Ah sì! Certo, Lara. Lara, sì.”
“Senti, per me puoi anche venire con una flebo infilata nel braccio. Ma siederai con me al tavolo Orchidea.”
“Tu non capisci, io ho rasentato il suicidio per Mara!”
“Lara.”
“Ah…sì. Lara, Lara.”
“Forse non hai capito, io a quel matrimonio ci devo andare accompagnata, anche da un cadavere se necessario.”
“Mi dispiace ma non credo che reggerei…”
“Stammi a sentire, lurido pezzo di letame avariato: a Lara, Sara e Mara aggiungici anche una BARA.”
“Ba..Bara?”
“Sì, BARA. È il nome del monolocale in cui passerai il tuo futuro se non verrai con me a quel cazzo di matrimonio e non incollerai il tuo culo a quella fottuta sedia di quel fottuto tavolo Orchidea. Chiaro?”

Il degente sarà pure pericoloso, ma con una donna che rischia il tavolo Mughetto, non c’è partita.