venerdì 30 aprile 2010

Il nebuloso

Questa faccenda della nube di cenere che ha mandato in tilt il traffico aereo mi ha fatto pensare ad un genere di uomo che sta mandando in tilt la popolazione femminile: il nebuloso.
Il nebuloso è confuso, incerto, dubbioso. Non risponde mai con chiarezza alle domande, non prende posizione, non sa cosa prova, non sa cosa dire. Le sue reali intenzioni, i suoi reali sentimenti sono un mistero. Avvolti, appunto, in una fitta nuvola di “boh”.
Per una donna incappare in un nebuloso è una grande sciagura. Ma se ne rende conto solo alla fine perché all’inizio ha sempre la presunzione di possedere la chiave d’accesso per quell’essere “complicato e meraviglioso che nessuno ha mai compreso”. Dopo un periodo di tempo che varia da donna a donna, l’unica chiave che tutte vorrebbero avere è quella inglese per spaccarla in testa al nebuoloso e osservare come sono organizzati quei pochi neuroni che vi alloggiano.
Già, perché il nebuloso può anche apparire affascinante sulle prime, ma più in là, scostando lo strato di polvere, si trova solo altra polvere.
Eppure in giro ce ne sono a migliaia che si riproducono come replicanti.
Ovviamente anche io ho avuto il mio buon nebuloso. Quando uscivo con lui, il Moment nella borsa era indispensabile. Le nostre conversazioni toccavano picchi di assurdità inenarrabili.
“Domani andiamo al mare con i ragazzi?”
“Mmmmh..bah, se ti va, io non saprei, per la verità, io forse, però si dai, se vuoi, figurati, al limite vengo, poi vediamo, non so, magari vai tu, io poi vedo…”
“Non ho capito. Andiamo o no?”
“Ecco qui, anche tu come tutte le altre donne, volete sempre una risposta chiara su tutto, per voi è tutto bianco o nero. Voi donne non conoscete il grigio.”
“Come no, è il colore di quella materia cerebrale che ti manca.”

“Scusa, posso sapere perché mi continui a presentare come tua amica?”
“Bah, non lo so, non so che dire, infondo siamo anche amici, e poi…ma perché me lo chiedi?”
“Perché mi pare che siamo all’ABC.”
“Io…non lo so, perché fissarsi sulle definizioni, amica è carino comunque, che c’è di male, però se a te non va bene, magari vediamo di cambiarla, non so, se proprio ci tieni, a me non dispiace se mi presenti come amico, però non vuol dire che non provi dei sentimenti per te, anche se non so bene quali, però insomma mi pare che si sta bene insieme, che poi bisognerebbe capire cosa significa stare bene...”
“Mi correggo, non siamo neanche all’A.”

Per ovvi motivi i problemi cominciarono quasi subito, e lì il Moment risultò insufficiente. Una sera sperimentai tre bicchieri di Prosecco a stomaco vuoto e mi resi conto che funzionavano.
Ma non è che si può finire alcolizzati per un rincoglionito.
Quindi dissi basta agli analgesici, lo portai a mangiare una pizza e mi armai di aspirapolvere.
“Senti, io sarei un po’ stufa di questa relazione amorfa. Forse è il caso di chiarire le cose”
La parola “chiarire” sul nebuloso ha l’effetto di uno spray al peperoncino.
“CHIARIRE?! Perché? Cioè cosa, che motivo c’è, io non lo so, dimmi cosa intendi, io posso pure provare, però non so, non ti garantisco, però dai, per te ci provo, io ci tengo, anche se non so davvero…”
- I signori hanno scelto che pizza prendono?
“No, un attimo solo, ci scusi.”
- Prego prego, fate con calma.
“Voglio capire cosa provi per me e che valore dai al nostro rapporto.”
Detto così può sembrare uno stile un po’ troppo Corte di Norimberga. Non mi sarei mai sognata di fare un interrogatorio simile ad una persona normale, ma avevo deciso di andarci giù pesante. O la va o la spacca. E la spaccò.
Il nebuloso si arrotolò su se stesso e cominciò a contorcersi come un pitone.
“Che ti prende?”
“No è che a me queste domande così mi agitano, io non sono il tipo che…, io…io…Ecco. Io sono un po’ confuso.”
Sono confuso. Eccola lì la prima boa dei nebulosi. Come se la confusione ti prendesse all’improvviso tipo attacco cardiaco e gli altri non devono farti agitare. Ma io non mollai.
“Questa non è una risposta. Devi deciderti.”
“Mah, beh, non è semplice, così su due piedi, non lo so, non so decidermi lo sai”
Nel frattempo il cameriere ci ronzava intorno con il blocchetto delle ordinazioni.
“Nella vita si fanno delle scelte.”
“Beh sì, immagino di sì, è solo che io non sono il tipo deciso, io non so scegliere..”
“Se sai cosa vuoi, certo che sai scegliere. Guardati dentro, chiediti cosa vuoi, rispondi a te stesso e poi…”
A quel punto il cameriere si avvicinò e disse discreto
“Scusatemi, ma se il signore proprio non sa cosa scegliere, abbiamo anche degli ottimi primi piatti.”
……………

In effetti quella sera le uniche decisioni prese furono una margherita, una carbonara e un calcio in culo.

Quasi tutte le mie amiche sono incappate in un nebuloso. Una in particolare ha tutta la mia solidarietà perché ha vissuto nella nube per circa otto anni.
Alla fine lei, stremata, gli chiese:
“Io voglio sapere se tu mi ami.”
Spray al peperoncino.
“IO?”
“Tu, sì tu. Con chi pensi che stia parlando, con il tuo cappotto?!?”
Considerate che il passo dallo stremato all’isterico, è breve.
“Io…io penso che…cioè non lo so se…vabbè diciamo che…Io ti…ti stimo molto!”
“Che cazzo me ne frega che mi stimi? Io voglio sapere se mi ami!”
“Io…non lo so, cioè penso che…io sono confuso.”
Prima boa.
“Sei confuso da quando ti conosco, adesso ti sconfondi e mi dici se mi ami oppure no. E stai attento a quello che dici perché se mi rispondi sì, noi ci sposiamo entro l’anno.”
Drrrrrrrranghete.
“Oh…beh…mah…aucch..spich…stump…spof….zac…..”
Nebuloso in corto circuito. Ma poi…
“Ho una grandiosa idea! Prendiamoci una pausa di riflessione!!!”
Puntualissima, la seconda boa del nebuloso. La pausa, alias: periodo durante il quale chi chiede la pausa fa quello che gli pare, alcuni fanno anche figli, e chi la subisce sta a fissare giorno e notte il cellulare finché gli occhi non chiedono pietà.
Di solito quando la pausa la chiede la donna, è l’anticamera della fine. Quando la chiede l’uomo, è perché c’ha un’altra tra le mani e vuole spassarsela senza sensi di colpa.
“Grandiosa idea una mazza. Durante l’ultima pausa te nei andato a riflettere in Brasile. Io voglio una risposta adesso. Mi ami o no?”
“Io, non lo so…”
“Non lo sai? Ok. Per me va bene così. Per me non saperlo equivale ad un no. Io e te non stiamo più insieme. Adesso vattene.”
“NO! ASPETTA!”
Altra particolarità del nebuloso: il terrore delle posizioni chiare. Lasciarsi vuol dire comunque prendere una decisione ed in un certo qual modo uscire dalla nube. Ammaccati, ma alla luce del sole. E il nebuloso ODIA la luce del sole.
“Aspetta…aspetta, cosa sono queste decisioni affrettate, piccicucci…”
“Niente piccicucci. O mi ami o no. RISPONDIMI!”
“Io…beh…ecco. CI SONO!!! Io…”
Tataaaaaaan…
“Io?”
“Io….TI HO AMATA. Ecco. Di questo ne sono sicuro. Infondo è già qualcosa no? Sì, io ti ho amata, un periodo. Di questo ne sono certo.”
E su questa certezza incrollabile, soprattutto molto utile per un futuro insieme, calò finalmente il sipario.

Io penso che i nebulosi siano una vera piaga sociale. È colpa loro se relazioni sterili si protraggono per anni e poi dinanzi alle decisioni importanti naufragano lasciando alla deriva povere ragazze stordite. Bisognerebbe istituire nelle scuole l’ora di difesa personale contro il nebuloso.
“Se un uomo vi dice - non so cosa provo per te, ma poi perché imprigionare i sentimenti in una squallida definizione? - invece che fare sì con la testa con il sorriso idiota da musa del poeta, sferrategli un gancio sulla mandibola, qui, proprio qui dove c’è l’osso, e scappate.”
Troppe donne ci cascano ancora. E con la loro accondiscendenza peggiorano la pericolosità del nebuloso, che può passare di sprovveduta in sprovveduta fino agli ottant’anni.
Ultimamente ho letto di un problema simile sui giornali: i piccioni.
Questi ratti volanti scagazzano nelle nostre città facendo danni serissimi a edifici e monumenti. Portano malattie, sono sporchi e puzzano. Eppure c’è un esercito di ignoranti che ancora da loro da mangiare. Per chissà, non fossero già abbastanza paffuti. Un piccione di Piazza San Marco pesa più di un bambino indiano.
Il Comune di Milano, però ha avuto un’idea niente male: attirare i piccioni in zone apposite in cui sottrarre loro le uova, così da limitare la riproduzione.
Chissà che la strategia non si possa applicare anche ai nebulosi: attirarli tutti in una zona recintata, pagare delle attrici che si prestino a fingere confuse relazioni, previo tassativo divieto di figliare, e arrivare così ad una dolce, graduale, indolore…ESTINZIONE.

martedì 27 aprile 2010

L'amore ai tempi della Sip

Chi ha meno di vent’anni probabilmente non sa neanche di cosa stia parlando.
Chi è sui trenta invece dovrebbe ricordare che un tempo la SIP, antenata della Telecom, era l’unico modo per comunicare con gli/le spasimanti, a meno che non si volesse ricorrere alle Poste Italiane. Ma in tal caso bisognava mettere in conto che nel frattempo l’interessato/a avrebbe anche potuto mettere su famiglia.
Sono certa che cellulari e Internet abbiano influito in maniera determinate sulle relazioni. Non so se in bene o in male, ma di certo hanno snellito le procedure. Ai tempi dei miei primi flirt era tutto più rocambolesco. E non farò la nostalgica dicendo “ma anche più romantico”, perché non lo era affatto. Qualcuno mi può segnalare qualcosa di più raggelante della voce cavernosa del padre del tuo fidanzatino che ti grugnisce al telefono “Umpf, chi lo vuole?”.
Adesso siamo abituati al fatto che al cellulare risponda il suo proprietario, ma un tempo era una roulette russa. Chi risponderà? La mamma esaurita, il fratellino stronzetto o la nonna rincoglionita? Fatto sta che quel deficiente non rispondeva mai.
Prima di comporre il numero ci voleva un esercizio yoga.
“Ok, su, con calma dai. 758127. Oh. Brava.”
Tuuu – tuuuu
“ Vedi. Sono solo sei innocui numeri, adesso ti risponde lui e vedrai che andr…..”
“PROOOOOOOONT’”
No! La nonna…
“CHI PARLA?”
“B-B-buonasera sono un’amica di Osvaldo, me lo può passare?”
“La rubrica dello smeraldo? No, no, non voglio niente.”
“OSVALDO! Suo nipote..”
“Lo smeraldo sulle ruote? E che robb’è?”
“SIGNORA MI PASSA OSVALDO!?!?!”
“Ah…Osvaldo! Un momento.”
“Osvaldinoooooooo! Vieni a telefono, bell’a nonna. Ci sta ‘na signorina scostumata che allucca com’ a che.”

Ma questo è niente. Il telefono fisso era un’inesauribile fonte di figuracce per ricevente e richiedente.
Un’estate la mia amica Giulia agganciò un tizio belloccio che si faceva chiamare Mito. Il suo vero nome nessuno glie lo chiedeva perché “Mito” gli stava a pennello. Era fortissimo in tutti gli sport, era simpatico e molto popolare. Ma la migliore delle sue specialità Giulia la scoprì a fine agosto: la fuga. Mito sparì senza lasciare nessun messaggio o recapito, ma lei si mise sulle sue tracce come un setter inglese e alla fine arrivò a scoprire cognome e residenza invernale, e quindi numero telefonico, del fuggitivo.
Giorno X, ora X, casa di Giulia. Scopo della missione: mandare Mito a fanculo così da ribaltare la posizione della mia amica da scaricata in scaricante.
Io fui convocata in qualità di supporto alle operazioni belliche.
“Ok. Ci siamo, sei pronta?”
“Sì. Vai.”
Giulia compose il numero sotto mia dettatura.
Mancava solo il tamburo per fare il rullo.
“AIUTOOOOO! SQUILLAAAA!!!!”
La cornetta volò in aria come una bomba.
“MA CHE FAI?!?!”
“Non ci riesco, chiama tu, poi me lo passi.”
“Ok. Ma stai calma.”
“Sì. Vai vai!”
Richiamo e mi risponde una voce femminile adulta. Certamente la madre.
“Pronto?”
“Buonasera signora, c’è Mito?”
“CHI?”
“M...Mito”
“Mi dispiace, ma qui non c’è nessuno che si chiama così, lei chi cerca?”
“Io..io cerco un ragazzo che ho conosciuto al mare…un ragazzo che fa surf..”
“Aaah..sì, mio figlio, un attimo. Filomeeeeeeenooooo! A telefonoooo!”

FILOMENO!!!!

“PRRRRRRRRRRRRRRR”
Prima che riuscissi a reprimerla, dalla mia bocca fuoriuscì la più clamorosa della risate a pernacchia, la peggiore di tutte, quelle che più si cerca di reprimerle, più esplodono senza ritegno, peggiorando irrimediabilmente la situazione.
Missione fallita: riagganciare.
Quando finalmente riuscii a riferire a Giulia il vero nome del suo Mito, la vidi afflosciarsi come un paracadute che tocca terra. Non so se per lo shock di essere stata con un Filomeno o per l’onta di essere stata mollata da un Filomeno. Forse entrambe. Ma insomma, Filo?! Se non vuoi divulgare un’informazione scomoda, li devi istruire un po’meglio i testimoni!

Una cosa del genere oggi, con i cellulari, non sarebbe accaduta. E non si sarebbero mai verificate le situazioni di seguito descritte in ordine crescente di imbarazzo, tutte realmente accadute. Non tutte a me, per fortuna.

Driiiiin
“Pronto?”
“Ciao cara! Sono Anna!”
Hi! Anna Russo! La stronza che mi ha soffiato il ragazzo!
“Che vuoi?”
Un attimo si silenzio un po’ imbarazzato.
“I…io volevo dirti che giovedì prossimo mi laureo, poi festeggio a casa mia. Avrei tanto piacere se venissi anche tu! Ci vediamo di rado ma io penso che dovremm…”
“Taglia corto, iena ridens. Tu mi stai invitando solo per farmi crepare di invidia. Sai quanto me ne frega di te e di quel demente obeso? Andate a morì ammazzati tutti e due.”
Sbam.
“Chi era al telefono?”
“Nessuno, mamma. Una cretina.”
“Ah! Vedi che stamattina ha chiamato la figlia di zia Iole. Ci teneva ad invitarti alla festa della sua laurea. Non ricordo mai come si chiama quella benedetta ragazza.”
“Per caso…Anna?”
“Anna, sì. Anna.”

Driiiiiin
“Pronto?”
“Ciao sono Virginia”
“Ciao Virginia come stai?”
“Male, male. Sto male. Nicola mi ha lasciato, è tornato da Rita. Quel disgraziato. Ma io sono certa che lo ha fatto solo perchè lo pressava troppo per gli alimenti. Tu capisci? Lui torna da lei, lei la smette di chiedergli soldi e lui è contento. Ma che uomo è? Ah, ma questa volta me la paga, eh. Me la PA-GA! Vado da Rita e le spiattello tutto. E tu non cercare di fermarmi eh!”
“No, però..”
“No! Non cercare di fermarmi perché io per ascoltare te tante volte, ho lasciato correre. Questa volta per favore non mi FER-MA-RE!”
“Non ti voglio fermare, Virginia, però ti passo mamma, perché forse è con lei che volevi parlare.”

Driiiiiiin
“Plonto chi è?”
“Ciao! Mi passi Francesco per favore?”
“Io tono Paolino.”
“Sì Paolino, ciao, mi passi Francesco?”
“Ho fatto la cacca.”
“Ah.”
“Tu la fai la cacca?”
“Eh, beh, certo…che carino... Mi passi il tuo fratellone?”
“No. La mia cacca puzza. La tua puzza?”
“Vabbè dai, chiamo dopo.”
“Checco sta qui”
“Bene! Me lo passi per favore?”
“Tu dici plima che fai la cacca che puzza.”
“Eh eh..Paolino Paolino.. passami Franceschino!”
“No. Fai la cacca che puzza. Dicilo!”
Scordatelo, dannato moccioso.
Dopo dieci minuti: “Plonto?”
Ma porca di quella…
“Paolino, tesoro, sono sempre io, mi passi Francesco?”
“Tu sei quella che fa la cacca che puzza?”
“No, sei tu quello. Passami Checchino per favore”
“Checchino mio. Tu blutta.”
“Io brutta? Perché? Ma come, io ti voglio così bene! Ti porto un ovetto Kinder?”
“No. Dicilo che fai la cacca puzza.”
“Piccolino… perché non mi passi Francesco e poi vai a vedere i cartoni?
“Cattoni blutti e puzzi come te. Checco mio, tu via.”
Piccolo bastardo cornutino, hai vinto.
“FACCIO LA CACCA CHE PUZZA, CONTENTO?”
“Non particolarmente. Ma immagino sia normale.”
“Francesco….”

E vogliamo fare un pietoso accenno a quei simulacri che ancora si possono osservare e fotografare in qualche angolo di strada? Le cabine telefoniche?
Quando la telefonata era veramente privata e non si poteva rischiare che tuo padre ti urlasse alle spalle “Attaccaaaa! Devo chiamare l’idraulicooo!”, allora si ammazzava il porcellino e si scendeva in strada con le tasche da cinque chili l’una.
Dopo aver ascoltato assurdi stralci di conversazioni altrui, arrivava il proprio turno per esibirsi nell’umiliante tentativo di tenere in piedi una relazione alimentando contemporaneamente quel mostro ingoiamonete. Nel bel mezzo della conversazione puntualmente arrivava l’autobus che restava bloccato dalla Fiat Uno in doppia fila. E giù con il clacson degno di una nave da crociera. Ovviamente il discorso restava in sospeso, ma il flusso di monete no.
“Scusa, mi stavi dicendo?”
“No, mi chiedevo se ti andava di bere qualcosa insieme per parlar…”
Peeeeeee! Peeeeeeee! Machicazzhalasciatstamachinquammiezzmannagg…
“Come dici?”
“Dicevo che magari potremmo parlarne di persona se tu mi dici a che ora…”
Peeeeeeee! "Escusatemaquilacabinaèdituttivoistatedatreoreiodevochiamareamiofigliochestaavercelli.."
“Sì, sì solo un attimo di pazienza, signora”
“Cosa? Ma con chi parli?”
“Con una signora che deve chiamare, senti allora ci vediamo stasera verso le nove al…”
“UEIOVADODIFRETTACHEMIOFIGLIOPOIESCEEQUANDOLOTROVOPIU’”
“Pronto!?! Non ho capito alle nove cosa?”
Peeeeeeeeeeeeeeeeeeeee!
“Ci vediamo alle nove al bar…”
Tlak.
…del Corso. Fine delle monete, fine della storia.
Un porcellino scannato per niente.


Insomma, se esiste qualche nostalgico che rimpiange i tempi della Sip, i motivi sono due. O era single, o si chiama Paolino.

giovedì 8 aprile 2010

La betoniera

Con i primi tepori primaverili si riaffaccia l'incubo dei chili di troppo.
Nelle vetrine delle farmacie fanno capolino i prodotti snellenti, in tv si cominciano a vedere le solite castronerie dimagranti, lungo i viali compaiono i maratoneti della domenica. Tutto ciò mi ha fatto tornare in mente un ex-emplare.
Di solito sono le donne ad essere ossessionate dal proprio sovrappeso.
Io chiaramente ho beccato l’eccezione.
Personalmente non ho mai messo la pancia in cima ai difetti fisici intollerabili in un uomo. Molto peggio i piedini numero 37 su un uomo alto 1 e 80. Oppure la carnagione glabra, bianca e trasudata tipo caciocavallo.
Quindi non notai più di tanto i chili di troppo di questo campione. Ma ci pensò lui a farmeli notare: quello che per me non rappresentava un problema, per lui era una tragedia. Seppi che non era mai stato un figurino, ma poco prima di conoscermi era stato operato di non so che. La cosa gli aveva procurato un drastico calo di peso. Rimessosi dall’operazione si era ritrovato con il fisico asciutto che aveva sempre desiderato. Gasatissimo per l’inatteso risvolto, l’ex barile aveva cambiato atteggiamento e guardaroba: la cintura si stringeva e l’autostima si espandeva. Aveva comprato una moto nuova, si era fatto un nuovo giro di amicizie, aveva cominciato a frequentare palestra e locali alla moda e si era fatto pure un tatuaggio: una piccola rosa sul bicipite.
Ma l’idillio con la bilancia era durato poco. La natura crudele si era presa la rivincita su quell’alzata di cresta e gli aveva riaffibbiato tutti i chili persi con gli interessi.
Le magliettine attillate ormai gli si fermavano all’ombellico, e la madre ne aveva fatto tutte pezze per la polvere. La palestra venne sostituita con il ristorante e la comitiva di fusti e veline con i vecchi compagni d’infanzia, occhialuti e stempiati.
Del periodo d’oro restavano solo la moto, inutilizzata perché non c’erano più locali vip da raggiungere, e la rosa sul braccio, che ormai sembrava una verza.
Io lo conobbi proprio in questa fase di ritorno al passato.
Andavamo sempre al ristorante e lui mangiava come un brontosauro. Però mi parlava sempre di quanto fosse in forma sei mesi prima e a riprova mi mostrava continuamente le foto di quel periodo. Un vero e proprio piccolo book fotografico. E allora capii che non si era mai rassegnato.
Imperterrito, continuava a fare acquisti per due taglie di meno. Le commesse lo guardavano un po’ perplesse, un po’ pietose.
“Per quando dimagrirò.”
“Sì, sì, certo.”
Un giorno, al ristorante, tirò fuori una confezione di Kilocal.
“Dice che funzionano.”
“Dice? Chi?”
“La televisione”
“Ah, e allora…”
Dopo aver ingoiato il pasticcone, il poveraccio ordinò tre assaggi di primo e quattro di secondo.
“La televisione dice chiaramente che si può mangiare tutto. Vedi? Anche sulla confezione c’è la figura di un piattone di spaghetti e di un pollo arrosto.”
Ovviamente i chili aumentarono e l’ex-emplare aveva sempre più l’aria affranta di una balena spiaggiata.
Finché un periodo notai una strana luce nei suoi occhi oltre che un leggero calo di peso ed un certo pallore.
"Questo mi nasconde qualcosa".
Quella sera non volle andare al ristorante ma in un lounge bar, (che si chiama così perchè il conto è sempre molto lungo da digerire). E ordinò solo una costosa bottiglia di champagne.
"Festeggiamo qualcosa?"
E magari mangiamo anche qualcosa, visto che c'ho un buco allo stomaco...

"Mmm...no, avevo solo voglia di un buon champagne francese."
"Ah, che bello. Hai già cenato?"
"Io? Mah, sì spiluccato qualcosina a casa."
Ok, faccio un salto nella rosticceria affianco, butto giù un paio di crocchè e poi torno a fare sta pagliacciata.

"Io vado un attimo a comprare le sigarette."
"Ma che fai, fumi?"
"Io? beh..no...ho solo voglia di una buona Philip Morris americana."
Mentre uscivo mi accorsi che il cetaceo ingurgitava furtivamente una pillolina.
Tornai al tavolo, lo perquisii e scoprii che si trattava di un farmaco inibitore dell'appetito, in altri termini di un anoressizzante.
“Lo so, lo so, il bugiardino è un po’ drastico, ma ti giuro che è esagerato. È l’unica cosa davvero efficace. Me le sono fatte arrivare dalla Svizzera. Comunque non è il caso di allarmarsi. È un farmaco a base di erbe naturali e non ha alcun effetto collaterale, alcuna controindicazione, difatti io sto beniiissiiiiii….”
Sbam. Il balenottero si accasciò al suolo svenuto.

Per fortuna al lounge sono previdenti e si fanno pagare prima.

Al pronto soccorso il moribondo se la cavò con una lavanda gastrica e una grande figura di merda con il medico di turno che gli chiese sarcastico: “Dottò, ma che tenevate paura della prova costume?”

Dopo quello spavento, il trippone decise di mettersi seriamente a dieta. Seguiva pedissequamente le indicazioni del dietologo. Era precisissimo con le quantità. Un caffé ed un frutto al mattino. 50 grammi di pasta a pranzo. Una fetta di carne bianca con verdura la sera. Un cucchiaio di olio al giorno. Non sgarrava di una virgola.
I tre cornetti, le quattro pizzette, le sette salsicce e le tre tavolette di cioccolato al giorno che c’entravano? Lui quello che il dietologo gli aveva scritto di mangiare, lo mangiava.
E allora perché quella maledetta bilancia segnava sempre lo stesso peso e anche di più?

Dopo un mese di questa “dieta” si arrivò alla paranoia pura.
“Dillo che sono grasso, dillo!”
“Ma no, dai non sei grasso, sei robusto”
“No, dimmelo, così io mi mortifico e poi mi metto a dieta.”
“Ok, sei grasso.”
“Sul serio?”
“Sì. Sei grasso.”
“Oddio…oddio… anche tu pensi che io sia grasso! Io mi uccido.”
“Ti dovevi mortificare, non suicidare.”
“E tu perché mi hai detto che sono grasso?”
“Io ho detto che sei grasso? Quando mai! Sei solo robusto!”
“No. Dimmelo che sono grasso. Dimmelo così mi mortifico e mi metto a dieta.”
E via così fino allo sfinimento.

Dopo qualche tempo, l’ex-emplare iniziò a sfiorare i limiti dell’obesità. E la paranoia diventò schizofrenia.
Una Pasquetta lo osservai mentre ingeriva un gigantesco coniglio di cioccolato, e pezzetto dopo pezzetto faceva questo lucido discorso: “Ho letto un articolo interessantissimo – gnamgnam - secondo una recente ricerca pare che gli zuccheri siano i responsabili principali dell’aumento di peso – gnamgnam - In pratica chi non mangia dolci può mangiare serenamente tutto il resto senza paura di ingrassare –gnamgnam -questa per me è una grande notizia, perché io non sono un goloso – gnamgnam- Io preferisco il salato - gnamgnam - dolci, torte, cioccolato, teneteveli pure, non ci vado appresso - gnamgnam – soprattutto il cioccolato poi, stranamente non mi ha mai fatto impazzire – gnamgnam -”
Non chiamai la Neuro solo perché avevo esaurito il credito del cellulare.

Al mare mi pareva di essere in compagnia di una donna con le mestruazioni. Pantaloncini, teli da bagno attorno alla vita, magliette, canottiere, e mille altri espedienti per coprirsi. E poi fughe isteriche in acqua al momento di fare il bagno, dopo di che uno sguardo furtivo per controllare che nessuno lo guardasse e via…! Spalmato sull’asciugamano a pancia sotto.

Non ne potevo più. Lo stress di quella situazione alla fine ebbe un effetto dimagrante. Ma sulla persona sbagliata. Me.
Ogni volta che qualcuno mi diceva “quanto sei dimagrita, stai benissimo!” potevo sentire i denti del leone marino che digrignavano rabbiosamente.
“Tu lo fai apposta a dimagrire, per farmi dispetto.”
“Ora che mi ci fai pensare, in effetti è vero. Perché non ti fai venire pure il complesso che sei basso, così io per dispetto mi allungo anche un po’?”
“SONO BASSO!?!”

Per la verità mi dispiaceva tanto che la prendesse così male. Più che incoraggiarlo a dimagrire, lo spingevo ad accettarsi per quello che era. Ma non c’era verso. Più si disperava, più si allargava come una gondola. Grosso come un camion e nervoso come uno yorkshire.

Una volta, a Roma, facevamo una passeggiata sul Lungotevere e io gli facevo la solita appassionata lezione sugli effetti positivi del volersi bene: “…capisci cosa intendo? Se tu la smettessi di infagottarti pure con quaranta gradi, se cominciassi ad accettare il tuo fisico, e non pensassi più di cambiarlo, staresti meglio psicologicamente, e la smetteresti di mangiare anche i gusci delle cozze…”
All’improvviso un tizio con un Ape passò accanto a noi, rallentò un poco e gridò “ABBELLA! MA CHE CE FAI CO’ STA BETONIERA?”. Poi impennò e ripartì. Proprio così, impennò con l’Ape.
“Ma tu vedi che cafone idiota, che si schiantasse contro un palo.”
“Gli hai fatto l’occhietto.”
“IO!?”
“Sì, si è fermato e ha detto così perché tu gli hai fatto l’occhietto da lontano.”

E va bene l’autostima, e va bene lo star bene con se stessi, e va bene il disagio psicofisico, e va bene il condizionamento impostoci dai modelli odierni, e va bene la necessità di raggiungere un punto di equilibrio tra benessere interiore ed esigenze sociali, e va bene che uomo di panza uomo di sostanza, e va bene che il corpo è solo l’involucro dell’anima……………………
………………………MA IO CHE CI FACCIO CO’ STA BETONIERA!?!?!?!