giovedì 28 gennaio 2010

Il capellomane

Sui quotidiani di questi giorni tiene banco un giallo davvero interessante: i capelli del nostro Premier.
Un giorno c’ha una moquette in testa, il giorno dopo pare un fungo champignon.
Io dico che pure i capelli non ne potevano più di lui e si sono suicidati in massa.

Questa vicenda, a parte farmi sentire ancor più fiera del mio Presidente, mi ha ricordato che quasi tutti gli uomini che ho frequentato, avevano con la propria chioma (o ex-tale) un rapporto travagliato.
Uno sfoggiava sulla testa uno spazzolone da bagno. I suoi capelli erano così rigidi e ispidi che non mi è mai saltato in mente di fargli una carezza. E lui si ostinava a volerli portare lunghi. Dopo una giornata al mare sembrava Wilson, il pallone da compagnia di Cast Away.
Dopo lo shampoo doveva rovesciarsi sulla testa un secchio di gel extrastrong per sedare quel disastro tricologico.
Una volta andammo insieme ad un matrimonio di amici e lui sembrava avesse fatto una doccia di silicone. Durante la cena bevve un po’ troppo e al momento della torta approfittò della distrazione generale per sedersi su un divanetto un po’ in disparte.
Doveva stare proprio male, perché da lontano gli vidi fare una cosa che non faceva mai: a testa bassa si passava e si ripassava le mani tra i capelli.
La nonna della sposa lo notò e ne ebbe pena. Gli si avvicinò tutta premurosa domandando:
“Giovanotto, si sente bene? Non prende una fetta di tor…”
Lui alzò la testa di scatto e...aaaah!
Wilson con lo smoking.
Le ripetute manate avevano azzerato la tenuta del gel. L’espressione da cefalo e il conato di vomito non miglioravano il quadro.
La nonna gli lasciò lentamente il piatto con la torta sul divanetto e si allontanò di corsa.


Dopo qualche tempo questo ex-emplare scoprì la stiratura chimica e lì la nostra storia cominciò a scricchiolare.
Quando veniva a prendermi sfoggiando la sua nuova pettinatura alla Mrs Robinson, facevo troppa fatica a salire in macchina. Aveva un caschetto con riga al centro e le punte che si arricciavano leziose verso l’esterno. Gli mancava solo un cappellino rosa con la veletta.
Certe volte si presentava con quella stessa mise aggravata dall’“effetto bagnato”.
E a quel punto mi sembrava di uscire con un Mocho Vileda.
“O me o il polonio che ti fai spalmare in testa”.
Ovviamente ha sposato un’altra donna.
So che al matrimonio ha esagerato con la dose chimica e che la sposa, quando lo ha visto sull’altare, si è impuntata sulla soglia della chiesa come un somaro.
“No! Non lo voglio il paggetto di Re Artù!”
Pare che il padre sia riuscito a convincerla sussurrandole all’orecchio “tranquilla che questa volta gli cadono tutti”.

Successivamente incappai in un soggetto con i capelli alla Toto Cutugno.
Quanto si piaceva per via di quel pagliarone!
Diceva che farsi crescere il ciuffo era stata la grande svolta della sua vita.
Uao. Che svoltone.
Se aveva appena fatto lo shampoo e andava in moto, non metteva mai il casco per evitare che gli si ammaccasse la parrucca.
Un giorno osservai: “Fai bene. Se ti dovessi sfracellare, almeno sulla tua testa ci troverebbero dei capelli in ordine.”
Non apprezzò il sarcasmo, ma capì il messaggio. Infatti smise di usare la moto dopo lo shampoo.

Una volta il suo barbiere si fece prendere la mano e gli accorciò i capelli un paio di centimetri più del solito. Lui promise di denunciarlo e corse subito a casa. Si ficcò un cappuccio di lana in testa e non se lo tolse che il mese dopo. A luglio.
Spero non perda mai i capelli. Lo troverebbero alla canna del gas.
A meno che non decida di fare come un mio conoscente. Colto da una parziale calvizie, decise di rinfoltire il vuoto con un toupet. Ma non riusciva proprio ad abituarsi a quello stoppino sulla zucca. Gli prudeva, gli dava calore, non stava mai in ordine. Però nei giorni di freddo gli tornava utile. E pure d’estate, quando in ufficio sparavano l’aria condizionata a zero gradi. Così cominciò ad usarlo come un cappello. Adesso lo mette per uscire e lo toglie quando entra in casa d’altri, in chiesa, al ristorante e per salutare ossequiosamente le signore.

Anche il mio ex palestinese, quando giunse in Italia, aveva un problema con i capelli. Riga da un lato, ondulazione birbante e boccolo finale. Pareva il marito di Rossella O’Hara.
Della serie “mi piaci per quello che sei”, gli ordinai subito di farsi asportare quell’impiastro dalla testa.
Clark Gable mi chiese allora di accompagnarlo da un barbiere qualsiasi.
Un pensiero diabolico si affacciò alla mia mente.
Il poveraccio non oppose nessuna resistenza. Si sedette al centro della stanza con i capelli umidi e un asciugamano sulle spalle. Non c’era nemmeno uno specchio.
Quando vide che brandivo le forbici da cucina, gli venne un dubbio:
“Ma sei sicura? Lo hai mai fatto prima?”
“Certo!”
Come no. Al Cicciobello di mia cugina.
All’inizio me la cavai bene. Ma quando giunsi al boccolo frontale, mi accanii con troppa enfasi dando una sforbiciata da paura.
“Hei piano!”
“Scusa, ti ho fatto male?”
“No, mi hai fatto paura.”
Porca miseria, gli avevo aperto una tangenziale tra i capelli!
Provai a riparare tagliuzzando qua e là, ma non vedevo soluzione.
Alla fine gli lasciai una ciocca più lunga con cui andai a coprire il misfatto. Con un forcina che gli teneva fermo il ciuffetto riparatore, sarebbe stato perfetto.
“Ecco qui!”
Lui prese una padella di alluminio e ci si guardò dentro.
“Che hai combinato!?”
“Perché? Guarda che è la padella che deforma.”
“Dici?”
Quando lo avevo quasi convinto di aver fatto un capolavoro, mi ricordai che quell’aiuola violentata con falciata laterale era il mio fidanzato. Gli feci mettere il cappotto e lo depositai sulla porta del primo barbiere che trovai.
Lo andai a prelevare un’ora dopo.
“Come ti hanno combinato? Sembri una rapa!”
Lui alzò gli occhi al cielo invocando la pazienza di Allah.
Se il giorno che ci conoscemmo decisi che il palestinese aveva un problema con i capelli, devo dire che quello stesso giorno i suoi problemi diventarono due.

Tornando al nostro Presidente, vorrei fare un appello a tutti gli uomini con la stessa sindrome di abbandono. Quando i capelli vi cominciano ad abbandonare, appunto, mettetegliela a quel servizio e liberatevene voi per primi. Lasciate perdere lozioni, riporti, parrucche e trapianti.
Zac. Taglio Montalbano e via.
Noi donne lo apprezziamo molto di più.
Anche perché se da squinzie ci piace l’uomo con la coda di cavallo, da adulte – stressate, isteriche e insofferenti – preferiamo molto di più l’uomo che non ci fa trovare i capelli nel lavandino.
Morale della favola: se somigliate a Richard Gere…e vabbè, qualche capello in giro per casa lo possiamo pure tollerare. Ma se somigliaVATE a Richard Gere e adesso virate sul San Francesco, e allora no. Non ne vale la pena.
A Piazza San Pietro preferiamo il deserto dei Tartari.
Capito Cavaliere?

venerdì 22 gennaio 2010

Quello con i soldi

Una persona che segue il mio blog mi ha chiesto: “Ma uno con i soldi non l’hai mai incontrato?”

Ovviamente sì, ma era quello sbagliato.
E non per la storia dei soldi che non comprano l’amore, come ci insegnano Flavio Briatore e sua moglie. No. Il problema era un altro.
Questo tizio con i suoi soldi voleva farci solo ed esclusivamente quello che voleva lui.
E’ giusto? Ma come è giusto? E allora dov’è l’affare, scusate?
Ti metti con un portafogli con un uomo intorno, e quello si comporta come un erogatore impazzito, che va sempre nella direzione sbagliata.
No, no. Articolo difettoso da restituire subito.

Mi comprava cose assurde, che non avevano nulla a che vedere con i miei gusti.
Roba con le piume, strass, pizzi.
Pensai che forse era alla ricerca di un trans. Però poi passò alla fase fiocchi, nastri e merletti, e mi confuse le idee.

Una volta si presentò con degli stivali di Fendi tutti borchiati, con zero tacco e pellicciotto rosso strabordante.
“Ma insomma, pure Claudia Shiffer con questi cosi sembrerebbe un’esquimese gobba.
Cosa ti fa pensare che al mio polpaccio doni il tacco raso terra e la pelliccia di scoiattolo assassinato! Un semplice paio di stivali neri, tacco dodici – che ne ho bisogno - no?”
La cosa che mi fece incazzare di più fu che con quella cifra io mi sarei rifatta il guardaroba.
Misi quegli stivali solo una volta, per andare in ufficio, sperando che passassero inosservati.
Illusa.
“Stamattina si va a caccia di balene?”
“Ce la fai a salire sulla sedia o ti prendo in braccio?”
“Che ti sei messa due cincillà nei calzini?
Arrrrgh!

Era fatto così, decideva quello che voleva per me, se mi stava bene, ok, altrimenti niente.
Un giorno mi accompagnò dal parrucchiere. Mentre quello tagliuzzava, l’ex-emplare sfogliava un catalogo con certe modelle superatomiche. Ad un certo punto si alza e viene verso di noi con la faccia invasata.
“Fammela così!” Dice al mio parrucchiere.
“Parli di me? E che sono una pizza?”
L’esagitato indicava una modella con i capelli rosso Tiziano striati di ciocche d’oro, nel senso che alla base dei capelli erano intrecciati proprio dei fili d’oro.
Al mio parrucchiere si fecero gli occhi così: $ $.
“Bene! Questa è un’acconciatura molto impegnativa e costosa, ci vorrà molto tempo…”
Ma io intervenni in scivolata
“Vai a sederti per favore. Valerio tu fai il solito. Non dobbiamo andare alla Notte degli Oscar.”
“Ma a me piace così!”
“Guardi, se proprio le piace potremmo vedere di…”
”Non vediamo niente! Fatteli mettere tu i capelli alla Wonder Woman!”
Lui si arrese e tornò a sedersi sognando modelle con ciocche da cento euro l’una.
Alla fine indovinate chi pagò il parrucchiere?

Un’altra volta l’ex-emplare venne a prendermi in piscina con quell’aria pericolosamente raggiante.
“Ti voglio fare un bel regalo!”
“Ma non è necessario…”
Non volevo fare complimenti, ormai avevo imparato.
Infatti mi trascinò nell’atelier più vetusto, costoso e pretenzioso della città.
E quando dico “trascinò” non uso un eufemismo.
Provai ad attaccarmi al palo della luce, ad una cabina telefonica, ad una signora con passeggino. Ma niente da fare.
Tentai un’ultima resistenza aggrappandomi all’anta chiusa della porta di ingresso, che però cedette aprendosi di botto e catapultandomi al centro dell’atelier.
Tutto questo sotto gli sguardi impassibili di due cariatidi messe lì a servire le clienti.
“Prego signora, si accomodi”
Lo sguardo di una di loro cedette per un attimo alla vista del mio abbigliamento.
Ne vengo dalla piscina, madame, mica dal concorso di bellezza per barboncini.
Una prese in consegna il mio bomberino nero, tenendolo come un topo morto, l’altra cominciò a mettermi addosso nell’ordine un cappotto rosa confetto, un soprabito celeste angelo e una giacca giallo paradiso.
Non capivo quell’ebete cosa avesse da guardare con quell’aria appassionata. Io nello specchio vedevo solo una specie di Troll camuffato da caramella.
Se avessi riposto uno di quei capi nel mio guardaroba, con ogni probabilità i miei vestiti l’avrebbero preso a botte. Bullismo tessile.
Ero avvilita. Quel cretino non mi poteva pagare qualcosa di più utile con tutti quei soldi? Che ne so, il tesserino per la piscina, l’assicurazione della macchina, una capsula nuova al molare!
Intanto ad una delle due mummie il rossetto arancio aveva invaso i denti e minacciava pericolosamente mento e naso. All’altra penzolavano dalle palpebre le ciglia finte in procinto di scollarsi.
Che schifo. Voglio le commesse smutandate della Benetton!
Alla fine quella con le ciglia cascanti mi mise addosso una palandrana di broccato color oro, verde e turchese, che costava quanto un motorino.
“Mamma mia, sembro la nonna di Alì Babà”
La vecchia mi sentì e riportò via stizzita quel monumento che stava in piedi anche da solo.
“Ce ne vogliamo andare di qui?! Alla Sisley ci sono dei saldi pazzeschi!”
“Quella roba te la puoi comprare pure da sola.”
Adesso convenite con me che l’affare non c’era?

Concludo con questo episodio e ditemi se avevo torto.
Pasqua.
Bussano alla porta, vado ad aprire e trovo un uovo di cioccolato alto quanto me, avvolto nel cellophane trasparente. Sul davanti un cuore enorme e la scritta “Ti amo”.
Che romantico? Aspettate un attimo.
Glie l’avrò ripetuto centinaia di volte che a me piace UN SOLO tipo di cioccolata.
Lindt al latte. Al massimo con le nocciole. Stop. Semplice e veloce.
Non costa poi questa cifra, si trova ovunque, pure in macelleria, sottoforma di tutto: tavoletta, pallettoni, uovo, coniglio, gallina, Babbo Natale e forse anche Berlusconi.
Uè, quell’uovo di dinosauro non era di cioccolato fondente?

Porca miseria e che stizza!
Squilla il cellulare. È lui.
Ok, controllo.
“Hai ricevuto il regalino”
“Eh, sì, grazie, sono dovuta uscire di casa per farcelo entrare”
Controllo.
“Visto che bello? Lo so che non ti piace, ma questo laboratorio artigianale fa solo cioccolato fondente. Ci sono andato apposta perché mi hanno detto che fa le uova della misura che vuoi tu.
Ne ho chiesto uno alto e pesante esattamente quanto te.”
Ma che carino. Un gemello uovo. Controllo.
“Ho capito. E… un ovettino Lindt al latte no?”
“Ma dai! La Lindt, non le fa queste cose in grande.”
“Già. E hai qualche idea di cosa dovrei farci adesso con questo meteorite?”
“Eh, non lo so, lo sciogli nel latte al mattino.”
“Come no, perché io a colazione c’ho la Nazionale di calcio.”
“Spero di no. Comunque qual è il problema? Non mangiarlo, tienilo così com’è, per bellezza.”
“Giusto. Adesso gli pago pure l’affitto di un monolocale, all’uovo”.
“Ma sei nervosa?”
“No. SONO INCAZZATA, perché hai gettato una cifra pari al mio stipendio per comprare una cosa che sapevi non mi sarebbe piaciuta, solo perché piaceva a te! Adesso vienitelo a riprendere questo frittatone e non comprarmi MAI più niente! Perché tu non SAI comprare niente. Consegni soldi qua e là come la lotteria Italia, senza un criterio logico! Se ti dicessi che ho fame mi compreresti un lucido per scarpe, se ti dicessi che ho freddo, mi compreresti una pomata per le emorroidi!”
Non avevamo detto “controllo”? Vabbè.

Chiusi il telefono e guardai il mostro.
Sperai di rifarmi con la sorpresa.
Provai a spostarlo dall’ingresso ma senza successo.
“Porca miseria, peso così tanto io!?!”
Tolsi il cellophane e andai a prendere un martello.
Salii su una sedia e…sbam! sbam! sbam!
Alla terza martellata il gigantuovo si aprì in due.
Una metà si abbatté sul portaombrelli di ceramica mandandolo in pezzi.
L’altra metà si sfracellò su una pianta già moribonda, stampandola sul pavimento.
Da questo disastro venne fuori il peluche più brutto che avessi mai visto in vita mia.
Colore carota, orecchie da coniglio, naso a proboscide, zampe caprine e nessuna traccia degli occhi.
L’invasore di cioccolato conteneva un alieno.

In conclusione, io dico che un uomo con i soldi è come un’aspirina: serve sempre e male non fa.
Ma un uomo che non sa usare i propri soldi è come un vigile urbano: inutile la maggior parte del tempo e pericoloso quando si mette in funzione.

lunedì 18 gennaio 2010

Proposta indecente?

Concedetemi questa piccola parentesi.
Ultimamente ho rivisto Proposta Indecente e ho concluso che la cosa più indecente di tutto il film sia il titolo.
Definire “indecente” una regolare proposta corredata da cotanta offerta, mi sembra davvero inappropriato. Se al posto di Robert Redford avessero messo Massimo Boldi, avrei capito.
Però qui parliamo di un marcantonio di prima classe che per una sola notte in compagnia di una donnina, offre un milione di dollari a suo marito. Al mio paese, certi blatteroni ti soffiano via le mogli senza chiedere permesso e poi non ti offrono nemmeno un caffé.
Mi è venuto il dubbio che quel titolo fosse il solito scempio dei titolisti italiani (quelli che hanno avuto il coraggio di tradurre Lost in translation in L’amore tradotto – tanto per capirci), e invece no. Sono andata a controllare. Il titolo italiano è la fedele traduzione di quello originale (Indecental Proposal). Meglio così.
Altrimenti quest’anno Bobby Redford ci querelava di certo.
“Indecente a me? E voi che c’avete quel nanetto spelato che per una cafonissima spilletta a forma di farfalla offre in cambio cena tra matusa con dessert gusto Viagra?”
Avrebbe avuto ragione.

Andiamo, con tutto il romanticismo del mondo, l’aspetto economico non può essere sottovalutato.
Nel film il marito prestamoglie, dopo essere stato mollato causa paranoie insopportabili, dice a lei: “Il mio errore è stato credere che avrei dimenticato”.
Bah. Io dico che con un milione di dollari ti dimentichi pure chi ti ha creato.
Comunque lo credo bene che sia stato decretato il peggior film di quell’anno.
Vogliamo parlare di che fine fa la cifra? Il marito non spende un solo penny, e la devolve intonsa ad un ippopotamo. Un bravo regista non dovrebbe mai confondere i generi. Qui è passato addirittura dal romantico al fantascientifico.

Lo ripeto: un simile film di questi tempi non avrebbe senso. Con la crisi che c’è in giro, altro che Proposta Indecente. I titolisti italiani questa volta lo tradurrebbero in Win for Life.

Forse dovrebbero ritirarlo dalle videoteche e non trasmetterlo mai più in tv.
La gente si confonde.
Chissà quante coppie sono partite alla volta di Las Vegas, sperando di incappare in un milionario vestito di bianco.
“E tirati un po’ su quella minigonna, sennò qui non rimorchiamo nemmeno il cameriere!
Poi col cavolo che ci paghiamo mutuo, settimana bianca e suvvettino nuovo.”

So di persone che l’hanno definito un giallo ermetico.
Sono arrivati alla fine del film e non hanno capito quale fosse questa proposta indecente.
Poi è arrivato qualcuno a chiarire il mistero:
“Ci sono! Il riccastro ha avuto lo stomaco di proporre la cifra in contanti piuttosto che in azioni e obbligazioni!”

giovedì 14 gennaio 2010

Il Listaiolo

Domanda: cos’è una lista?
Risposta: un elenco.
Sbagliato!
Per alcune persone è una ragione di vita.
E non mi riferisco alla lista dei buoni propositi per un mondo migliore. Ahimé, sto parlando di quelle per entrare nelle discoteche e nei locali.
Uno dei miei ex-emplari respirava solo sapeva di essere almeno su due liste per serata. Non importava che tipo di evento fosse, l’importante era che ci fosse una lista.
Passava metà del suo tempo a fare telefonate pazzesche:

“Arnolfo carisssssimo! Come va? Eh ce la caviamo, ce la caviamo. Ascolta, ho saputo che hai tu la lista per la Festa dei Dementi Rotanti. Ti spiace includermi? Perfetto. Cosa? Bisogna venire vestiti tutti di giallo con le mutande viola? Ma certo, che problema c’è. Sei sempre il mio migliore amico, grazie. Come? In che senso quale nome devi scrivere? Il mio, no? Ah. Non te lo ricordi.”

“Gandolfo! Amico mio… eh si va avanti, si va avanti. Senti, ti chiamo per la lista per La Notte degli Ebeti Volanti. Puoi aggiungere anche il mio nome? Grazie, Gandi. A buon rendere. Come? Certo certo, come no. Tutti vestiti da pennuti. Va benissimo. Ci vediamo e salutami il tuo mitico nonno, sempre un arzillo mandrillo eh? Come dici? Ah. Condoglianze.”

“Marcolfo mio! Da quanto tempo! Eh si combatte, si combatte. Dimmi un po’, ce l’hai tu la lista per il Giovedì degli Azzoppati Ingessati? Sì, grazie, se c’è rimasto un posticino nella lista… Ah. Non c’è ancora nessuno. Vabbè, ma siamo solo a martedì. Certo certo, con il gesso. Non so se riesco a procurarmi una frattura per giovedì, semmai lo metto finto. D’accordo e salutami tanto Liliana. Cosa? Caspita mi dispiace. Ah, capisco. Beh, allora salutami caramente Ugo.”


Passi nel mondo dello spettacolo; esserci vuol dire fare immagine e se questo è funzionale ad un guadagno, perché biasimare quei disgraziati? Le Iene fanno sempre questi crudeli scherzetti in cui l’addetto all’ingresso finge di non riconoscere gente della TV e la manda via senza pietà perché non presente sulla lista. Cattivi.
Antonella Elia, in prefetto stile Antonella Elia, continuava a ripetere: “Aò, ma sei fuori? Sono Antonella!”. Così, senza il cognome. Manco avesse detto “Sono Pupo”.

Comunque questo ex-emplare non era nemmeno dello spettacolo. Però se si accorgeva di non essere su una lista, lo dava lo spettacolo. Non sto parlando di un pischello di vent’anni, che si sa essere l’età di simili obnubilazioni mentali. No, parlo di un adulto con la sindrome del ripostiglio a scomparsa. Dico sul serio. Aveva il terrore di essere messo da parte, di essere tagliato fuori dalla società. La lista era il miglior modo che conosceva per far sapere al mondo che lui c’era.
Ancor più assurda la sua convinzione che per gli altri fosse lo stesso.
Una volta, mentre tornavamo da un locale, restammo con l’auto a secco. Era molto tardi e la pompa di benzina più vicina era a circa tre quarti d’ora di cammino. Una coppia si fermò a prestarci soccorso. Erano entrambi sulla cinquantina, vivevano in un paesino della provincia e tornavano da un matrimonio, infatti erano avvolti in due tremendi abiti da cerimonia.
Insieme pesavano più di un autotreno. Ma furono molto gentili. Andarono fino alla pompa e ci portarono una tanica di benzina.
Alla fine cosa disse quell’idiota per ringraziarli? “Siete stati squisiti. Vi lascio il mio numero, se passate di nuovo da queste parti e volete fare un giro all’Histeria o al Baldoria chiamatemi. Vi faccio mettere sulla lista”.
I due fecero un sorriso di circostanza, si ficcarono in macchina e partirono a razzo.
“Non potevi offrirgli semplicemente un caffè? Che ci devono fare due cinquantenni ippopotami di paese al Baldoria?!!”
“Tutti vorrebbero essere sulla lista del Baldoria”
“Stammi a sentire, Schindler, tu la Baldoria ce l’hai in testa.”

Nonostante la sua solerzia, a volte capitava che il suo nome non fosse su una lista. Ma lui non si arrendeva, protestava, faceva mille telefonate, chiamava i Carabinieri, l’Onu e la protezione animali, che ci sta sempre bene.
Io nel frattempo mi allontanavo di soppiatto avvicinandomi ad un qualsiasi gruppo di persone, purché nessuno mi associasse a lui.
Ma quella volta fu particolarmente disastrosa. Era Halloween e al MondoBaccano c’era una festa imperdibile. Il listaiolo si era mosso dieci giorni prima e dopo mille telefonate si era accaparrato due posti in coda alla lista.
La serata prevedeva un travestimento a tema. L’ex-emplare volle mascherarsi da Corvo, quello del film. Ma per come la sorella l’aveva truccato sembrava più un panda. Io invece indossavo un abito a palloncino arancione e due dita di fondotinta dello stesso colore. E così pretendevo di sembrare una zucca. Difatti il Corvo mi chiese: “perché ti sei vestita da mandarino?”
Superando scheletri e fantasmi in regolare fila, ci dirigemmo verso l’ingresso con il cartello “Liste”.
Il Corvo pronunciò il suo nome ostentando una calma che non aveva, e aspettò mentre goccioline di sudore gli scioglievano il pastone che aveva in faccia.
“No, non c’è”.
Panico
“Non è possibile, controlla meglio.”
“Niente da fare, non ci sei.”
Ingiuria! Non ci sei
“Ascolta, io sono amico carissimo di Annibale, è lui che mi ha invitato…”
“Annibale? E chi cazzo è?”
Ok, era ora di confondermi tra la folla. Diedi inizio alla manovra di avvicinamento ad un gruppo di ragazze vestite da streghe.
“Ma come, Annibale il Cannibale, quello che ha organizzato la festa!”
“Ti hanno informato male. Questa festa è organizzata da Nicola la Sòla.”
E già il nome…
“Bene, conosco anche lui. Posso entrare adesso?”
“No caro, devi fare la fila come tutti gli altri comuni mortali.”
Embè, definire mortali quell’esercito di spettri e zombie...

“Senti amico io occupo una posizione di rilievo, se mi fai entrare potresti godere di una serie di vantaggi…”
“Stammi a sentire, Orsetto del Cuore: primo non sono tuo amico, secondo i tuoi vantaggi falli godere a tua sorella e adesso levati di torno che mi blocchi l’ingresso”.
Io mi accostavo sempre più alle fattucchiere.
Il panda fece per andarsene, poi si voltò e diede inizio al suo show:
“Tu non hai capito con chi hai a che fare! Io sono amico di Gianbattista che Pista, Ernesto Sparalesto e Gianriccio Capriccio! Mi basta fare una telefonata e tu sei fuori. FUORI!” (Veramente sei fuori tu). Tu eri nella culla mentre io partecipavo alla mitica Serata delle Braghe Bollenti del ‘91! E nell’88 sono stato anche eletto Mister Maglia della Salute Sudata! Senza di me questa serata è morta. MORTA! (e vabbè dai, è la serata giusta).
Adesso faccio quella telefonata e tu torni a separare le pecore nere da quelle bianche…”
Quello non si scompose. Chiamò un immenso buttafuori e gli indicò il dimenato.
La montagna umana gli si avvicinò lentamente, lo guardò negli occhi e con le quattro dita della mano gli diede un colpetto sulla fronte. Così: Puc!
Mamma mia, adesso sembrava un Pierrot con le dita nella corrente.
A quel punto mi azzeccai un po’ troppo alle streghe, che se ne accorsero, mi guardarono e si allontanarono. Una disse “ma che vuole sto Super Santos?”.
Nel mio piccolo avevo fatto pure io una discreta figura di merda.
L’ex-emplare tornò da me e disse: “Andiamocene, c’è brutta gente”.
In effetti non era proprio il Ballo delle Debuttanti. Ma noi due eravamo i più brutti di tutti.
E anche i più guardati, non certo per lo stile.
Convenni che sparire era la soluzione giusta.
“Sì, sì, andiamocene”
Ci avviammo al parcheggio affrettando il passo sempre più, finché dovemmo sembrare due centometristi un po’ sfigati.
“E adesso dove andiamo così combinati? Non possiamo nemmeno andarci a fare una pizza!”
“Non ti preoccupare, siamo anche sulla lista della festa di Halloween della Leopardi.”
“La Leopardi? E chi è, una tua amica?”
“No, la scuola media Giacomo Leopardi.”
!...!....!

Devo dire che fu un periodo molto intenso in quanto a vita sociale, ma per ovvi motivi la storia andò in decomposizione come una busta di latte fuori dal frigo.
Però feci un ultimo grande favore a questo soggetto: lo misi in cima alla lista dei miei ex. E senza fargli fare nemmeno una telefonata.

lunedì 11 gennaio 2010

Sacchetto

Ok, tregua finita, torniamo a picconare gli ex-emplari da zoo.

Questo post è dedicato ad un soggetto che non fa parte del mio repertorio. Eh lo so, un vero peccato, ma me ne sono fatta una ragione.
Il copyright è di una mia cara amica ed ex-collega, che mi ha autorizzata a riciclare il suo ricordo spazzatura. E qui parliamo di un bell’ettaro di discarica.

In ufficio lo ribattezzammo profeticamente “Sacchetto”, poiché esibiva un bel fisico da busta di immondizia. Spesso i mancati adoni si riscattano per intelligenza o almeno simpatia. Sacchetto invece dimostrò di meritare quel nomignolo non solo per il contenitore, ma anche per il contenuto.

Sacchetto era un impiegato di banca. Una banca importante. Guadagnava presumibilmente uno stipendio discreto, soprattutto se consideriamo che la vicenda è ambientata all’epoca della lira.
Eppure aveva fatto voto di povertà, e per lui tutte le occasioni per spendere soldi erano opera del demonio.
Il ristorante? Un covo di germi e ladri. La discoteca? Un postaccio per degenerati. Le vacanze? Morte sicura.
Al cinema si poteva andare solo i giorni feriali e allo spettacolo delle 17, che costava la metà. Ma la mia amica, che qui chiamerò Arianna, a quell’ora era ancora in ufficio, quindi pazienza.
Il massimo era un cono gelato monogusto senza panna.
Secondo Sacchetto i regali erano un maleficio della società dei consumi, per cui ad ogni ricorrenza consegnava ad Arianna un bigliettino con su scritta la cifra che aveva messo da parte su un libretto di risparmio destinato al loro matrimonio. La santa ringraziava anche. Ma una volta si impuntò.
“E va bene Natale e va bene il compleanno, ma per la Festa della Donna, preferisco la mimosa piuttosto che mille lire in più sul libretto.”
Lui si presentò con un ramoscello di oleandro spennato, scippato ad un cespuglio dei giardini pubblici.
“Ma sì! Oleandro, mimosa, sempre fiori sono!”
“Non proprio. L’oleandro è velenoso. Butta questa roba e vai a lavarti le mani, deficiente.”

Un’altra fissa di Sacchetto era mammina. Mammina di qua e mammina di là.
Io dico che passati i cinque anni è meglio evitare di chiamare così la propria madre. Almeno in pubblico. Può anche essere una cosa affettuosa, ma alle orecchie altrui suona sempre un po' inquietante.

Comunque la mammina di Sacchetto era sempre in punto di morte. O meglio, non lo era, ma “se lo sentiva”.
E il figlio si lasciava suggestionare puntualmente da questo roseo presagio.
“Ma se è più sana di me!?!”
“Sì, ma che c’entra, lei sente che sta per morire. Tu te lo senti?”
“Io? Santo cielo, no!”
“Ecco, lo vedi? Lei invece se lo sente.”
“Ma se sono vent’anni che se lo sente!”
“Che vuoi dire? Che deve morire?.”
“No, no. Per carità!”
Però se proprio se lo sente

Mammina urtava per sbaglio la statuina di Padre Pio: eccolo lì, il messaggio divino. Prenotare la Cattedrale per le esequie.
Mammina sognava un ratto vestito da San Pietro: brutto segno. Contattare le pompe funebri. Mammina teneva il bruciore di stomaco: è la fine. Allertare il parroco per l’estrema unzione.

“Per forza c’ha il bruciore di stomaco… si è mangiata un capretto intero!”
“Pulcina che ci vuoi fare? Il capretto con le patate è l’unica gioia di mammina.”
Oh. Allora ne ingoiasse un gregge intero e facciamola finita con tanta, ma taaaanta gioia.

La mia amica aveva un sogno: andare sulla neve. Supplicò Sacchetto di portarla in una località sciistica a due ore di macchina, una toccata e fuga di un giorno solo. Ma lui era molto perplesso: i problemi erano tre: il caro benzina, i prezzi dell’unico ristorante della zona, e la moribonda.
Sui primi due si accordarono per un fifty-fifty (che pena) e per una frittata di maccheroni portata da casa. Sul terzo problema dovettero contrattare molto di più. Alla fine Sacchetto si convinse ad accompagnare mammina da sua sorella, in modo tale che non morisse da sola.
Durante il viaggio di andata Sacchetto fece circa dodici telefonate per sapere se era avvenuto il trapasso. Niente da fare.
Una volta arrivati su in cima, Arianna era felice nonostante Sacchetto si fosse evoluto in un grande bidone della nettezza urbana: quell’oscena tuta da sci argentata era l’unica cosa che mammina era riuscita a rimediare al mercato dell’usato.
Arianna si diresse correndo verso il piazzale tutto innevato e pieno di gente. Sacchetto la seguì a fatica, poi tirò fuori il cellulare per chiamare mammina e… dramma! Non c’era campo.
In preda al panico, il bidone cominciò a rotolare attorno al piazzale agitando su e giù il telefonino.
Alla fine si arrese.
“Niente da fare. Dobbiamo scendere un po’ più a valle.”
“Vacci da solo a valle, chiama mammina, vedi se è morta e poi torna a prendermi. Io resto qui.”
“Sei pazza? Ci vorranno un paio d’ore! E quanta benzina dobbiamo sprecare?”
“Ce la metto io la benzina, lasciami qui e vattene.”
“Se preferisci così, Pulcina, io vado.”
Rassicurato sul versante economico, l’infame si avviò verso l’auto. Poi però gli venne in mente un altro aspetto, si rigirò e disse:
“E la frittata? Se mi viene fame…hai portato un coltello per farla a metà? Pulcina, ma che stai facen…”
Sbaaam. Uno zainetto contenente una frittata di maccheroni si schiantò sulla pattumiera.
“Mangiatela tutta, merdaccia. Io vado al ristorante.”
Lui si guardò bene dal replicare e tanto più dal seguire Pulcina.
Il ristorante? Un covo di germi e ladri.

Tempo dopo, Arianna decise di tirare le fila di quel rapporto sgangherato.
“O ci sposiamo, o ci lasciamo”.
Sacchetto le aveva già fatto una specie di proposta due anni prima, ad un falò, ma Arianna aveva risposto che era meglio aspettare ancora, sospettando che la cosa avesse a che fare con un mezzo cocomero ripieno di sangria.

Infatti davanti a quell’out out, Sacchetto cadde dalle nuvole e si trincerò dietro il suo scudo spaziale:
“E come facciamo, Pulcina, con mammina che sta così? Non mi sembra il caso…”
“Tua madre sarà felice di vedere suo figlio sposato, prima di morire.”
“E se muore prima?”
“Vediamo allora di sbrigarci.”
Autogol di Sacchetto!
Fiutato il pericolo, il pavido perse quel sorrisetto dispiaciuto e sfoderò un ambiguo:
“Non si può.”
“Cioè!?”
“Non abbiamo soldi.”
“E tutti i soldi messi da parte in questi anni? Quelli dei regali e di tutte le vacanze che non abbiamo fatto?”
“Quelli non sono sufficienti.”
“Ma cosa ne hai fatto del tuo stipendio? Lavori da dieci anni!”
“Quelli non si toccano. Mi servono.”
“Per cosa!?”
“Per il funerale di mammina, lo sai che lo vuole in Cattedrale, per la tomba a cappella, e tutto il resto.”
Silenzio tombale. È il caso di dirlo.
Sacchetto avvertì l’ebbrezza di essere il capo, quello che decide cosa si fa e cosa non si fa.
Ci prese gusto e sferrò l'attacco finale ripetendo una frase che aveva sentito dire a quelli di Uomini e Donne:
“Comunque io non ti ho mai promesso niente.”
Ah, caro Sacchetto, i tronisti non c’hanno cervello, ma almeno c’hanno il fisico.
No?!? E quando mi hai chiesto di sposarti, a quel falò?”
“Quale falò?”
“Quello dove ci siamo imbucati per festeggiare il nostro anniversario di fidanzamento!”
“Ah, quello. Vabbè che c’entra, quella era una domanda, mica una promessa.”
Ahia. Sacchetto, Sacchetto…sarebbe stato molto meglio ammettere il tasso alcolico fuori norma.
“Su adesso basta con questa storia e torniamo a casa, mammina sarà in pensiero.
Oggi voleva fare un babà, ma l’impasto non è lievitato per niente e lei si è agitata tanto, poverina. Dice che è brutto segno… ma, Pulcina che ti prende?”
Nel voltarsi, Sacchetto si trovò affianco una femmina di Tyrannosaurus Rex.

“Sai che c’è?”
“C..c..che c’è?”
…………………………

“MA VAFANGUL TU E MAMMINA!”

Se Sacchetto citava un tronista, per Pulcina era arrivato il momento di scomodare Troisi.

martedì 5 gennaio 2010

Il peluche con la kefiah

In questo post mi prenderò una pausa da scempi e disastri e parlerò di un ex-emplare decente. Perchè qualcuno lo è stato altrimenti avrei finito col prendere i voti.
Anzi, più che decente devo dire che era proprio per bene, quindi non lo prenderò in giro perchè non se lo merita.
Davvero: questo ragazzo era una personcina a posto. Suo malgrado. Già, perché l’ex-emplare di cui sopra avrebbe preferito di gran lunga sembrare un temibile individuo, ma proprio non gli riusciva. Mi spiego meglio. Veniva dall’Israele ed era un arabo-palestinese. Non era in Italia per dirottare aerei, ma per studiare e laurearsi. A dispetto di ogni possibile pregiudizio, era l’essere più innocuo di questo mondo, ma la cosa lo faceva incazzare come una biscia.

Tanto per cominciare la statura non proprio svettante e gli occhialini tondi incidevano negativamente sul physique du role. E poi i modi garbati, la serietà e una grande timidezza ne facevano una persona schifosamente per bene. Lui ci provava in ogni modo a sembrare un losco, ma se le vecchiette gli chiedevano puntualmente una mano ad attraversare la strada, qualcosa non andava.
Ad ogni modo lo ripeto: questo ex-emplare era una brava persona, quindi non ho intenzione di prenderlo in giro.
Dirò solo che il poverino era la vergogna del gruppo di studenti suoi connazionali. Non che loro fossero terroristi in incognito, non credo almeno, ma il loro aspetto era molto più simile all’idea che uno può avere di un palestinese. Tutti alti, soprabiti in pelle nera, occhiali da sole scuri e barba di due giorni. Quando camminavano insieme per i corridoi dell’università facevano un certo effetto. Però poi seguiva in coda il mio peluche con la kefiah, e l’effetto svaniva.

Una mia amica – persona esuberante, stile no-global, vagamente comunistoide, ma soprattutto sciroccata persa – volle assolutamente conoscerlo.
“Fiiigo! Ti sei messa con un palestinese! Grannnde. L’ho sempre detto che sei una tosta.”
Io provai ad avvertirla: “Vedi che è uno del tutto normale.”
“Un palestinese non può essere normale. Ogni palestinese ha nello sguardo il fuoco, la lotta, la disperazione di un popolo privato della propria terra, la storia di un’ingiustizia che per secoli…”
“No guarda, sei fuori strada…”
“Avanti, avanti! Conosciamo questo compagno!”
???
Quando il compagno arrivò io li presentai scettica.
La mia amica rimase interdetta. Si aspettava un guerrigliero con mitra in spalla e invece si trovò davanti il Puffo Quattrocchi.
Lo scrutò più a fondo alla ricerca del nume di Arafat. Macchè.
Lui si accartocciò su se stesso. Cercai di ravvivare la conversazione, ma l’arabo sembrava un televisore con l’audio rotto. Muoveva le labbra ma non si sentiva niente di niente. La mia amica gli fece un paio di domande a sfondo politico, poi si spazientì e sbottò: “Uè, ma che dici, non ti sento?!”. La situazione tracollò. Il poverino si fece rosso, sbarrò gli occhi e…orrore: mi parlò all’orecchio. Volevo morire, era dai tempi dell’asilo che non mi capitava.
Lui mi farfugliò qualcosa, ma afferrai solo “questa bazza”. Pazza. La “p” proprio non gli riusciva.
La tipa era definitivamente contrariata. Presi in pugno la situazione e dissi “Ok, dobbiamo andare”. Spinsi un po’più in là il fratello scemo di Bin Laden e gli intimai di avviarsi in biblioteca. Alla ragazza dissi seccata: “Te l’avevo detto che era normale”.
“Senti, questo non solo non pare un palestinese, ma non mi pare manco tanto normale.”
E qui devo proprio spezzarla una lancia a favore dell’ex-emplare: una smandrappata con i capelli metà neri e metà blu, il corpo crivellato di piercing, solo due esami sul libretto e al quarto anno fuori corso, decretò che quel ragazzo non era normale solo perché si aspettava una specie di Terminator!

Tempo dopo l’arabo ricevette la visita di un suo caro cugino e conterraneo.
Poiché era un grande appassionato di calcio italiano, decidemmo di portarlo a vedere una partita della Nazionale, a Napoli.
Prima di metterci in auto, provai a spiegare con i gesti al cugino che sarebbe stato meglio lasciare a casa gli occhiali da sole Dolce&Gabbana appena comprati.
A Napoli non si sa mai.
Poichè il ragazzo sembrava non capire chiesi al mio ex di tradurre, ma anche lui parve sorpreso.
“Perché non dovrebbe metterli?”
“Perché magari glie li rubano, no?”
“Ma come fanno se lui li mette?”
“Così.” e sfilai gli occhiali dal nasone del parente, come avevo visto fare un paio volte ai ladruncoli napoletani.
Il piccoletto insorse
“Ma che dici?! Noi siamo palestinesi! Voglio vedere chi si permette di fare una cosa del genere a due palestinesi! Noi non abbiamo paura di nessuno, cosa credi? Basta che vedono la mia kefiah e nessuno si avvicina, ti faccio vedere. Tsè.”
Eccolo il Rambetto che scalpita. Avrei voluto dire che per quella categoria di persone la kefiah è solo una sciarpa bianca e nera. Ma non lo feci, tanto era inutile.
Lui fece segno al congiunto di mettere gli occhiali e si avviò tutto impettito. Due passi e incespicò.

Camminavamo sul suolo napoletano da meno di cinque minuti e accadde l’ovvio.
Due tizi su un motorino si fermarono accanto a noi e indirizzarono uno sguardo divertito all’occhialuto D&G.
Io mi ficcai al volo in un bar e, per restare in tema partenopeo, “chi s’è vist’, s’è vist’”. Dalla vetrina avevo una buona visuale e assistetti alla scena completa.
Quello alla guida dello scooter disse qualcosa all’incauto cugino, che chiaramente non capì e si voltò verso il mio ex. Lui balbettò qualcosa a volume zero e fece un passetto indietro.
I due “napulilli” lo ignorarono e beffardi sfilarono gli occhiali dalla faccia dello sprovveduto, esattamente come avevo predetto io.
Il derubato provò a reagire, ma dallo scooter partì una manata in fronte che lo stordì.
Finalmente il mio ex-emplare cominciò a pensare di avviare le procedure per fare qualcosa. E allora lo vidi che a ritmo di moviola si toglieva gli occhiali e si sfilava il relativo fodero dalla tasca per riporveli con cura. Ma il fodero disgraziatamente cadde. Quindi abbassati a terra, raccogli il fodero, aprilo a fatica che è difettoso, metti gli occhiali a posto, prima magari dai una pulitina alle lenti con il panno di daino, rimetti il fodero in tasca, no, non quella esterna, meglio quella interna, richiudi la lampo del giaccone che fa freddo. E adesso alza la testa e prova a mettere a fuoco la situazione.
La situazione era già bella e risolta. I mariuncielli stavano per allontanarsi con la refurtiva mentre il cugino li guardava attonito. Poi però lo scooter ritornò indietro e compì l’oltraggio. I due si avvicinano al mio ex, e quello seduto dietro, lesto come un gatto, gli sfilò la kefiah dal collo per poi agitarla in aria a mo’ di trofeo mentre l’altro dava gas.
Quartieri Spagnoli – Palestina: due a zero.
No. Non dovevo ridere. Non era proprio il caso di ridere. Non ridere! Non ridere! Vabbè dai, ridi adesso che non ti vedono.
Andai alla cassa e ordinai due caffé. Mi affacciai e chiamai i due polli ancora impietriti.
“Ragaaazzii! Il caffé”
A causa del mio tono leggero, pensarono che non avessi visto la scena e si ricomposero. La dignità non era persa del tutto.
Entrarono nel bar e presero il caffé in un silenzio sepolcrale. Per tutta la durata della partita e anche dopo, finsi di non accorgermi che ad entrambi mancava qualcosa.

Dopo la laurea il ragazzo tornò in Israele. Oggi è uno degli avvocati più bravi del Paese. Ma con quell’aspetto non deve essere stato facile. Una volta mi scrisse che era stato chiamato a difendere un uomo accusato ingiustamente di non so cosa. Prima di uscire di casa, nella concitazione, il neoavvocato di peluche si era infilato per sbaglio la giacca del fratello, uno spilungone.
Quando questa giacca che camminava entrò nell’aula colloqui del carcere, il suo cliente scoppiò in lacrime e urlò “Ma allora lasciatemi in cella! Che me lo fate a fare il processo?!?”.
Invece fu assolto con formula piena.

Comunque lo ripeto: questo ex-emplare è una brava persona, quindi non ho nessuna intenzione di prenderlo in giro.

sabato 2 gennaio 2010

Il Rambetto

Personalmente ho sempre disdegnato il tipo “Rambo”. I muscoli tutti venosi mi fanno un tantino senso. L’occhio sbieco mi disorienta e le turbe mentali causa passato difficile, mi stressano.
Però negli anni ho capito che molti uomini anelano a rassomigliare all’eroe di cui sopra. Non che se ne vadano in giro per montagne a torso nudo, con una fascia rossa in testa ad urlare “non ho fatto niente, non ho fatto niente…”. Questo no. Però in alcune occasioni li vedi scattare con una vena pulsante al collo, determinati a risolvere fisicamente la questione. Peccato che l’antagonista sia assente o non possa sentire. Ma questo per loro è solo un dettaglio.
Uno dei miei primi boyfriend era molto alto e abbastanza grosso, ma aveva l’agilità di un divano e ne era ben consapevole. Una volta gli raccontai di un tizio che aveva scherzato un po’ pesantemente con me e con le mie amiche sull’autobus. Lui, gonfio come una rana e tutto rosso in volto, cominciò a sibilare a denti stretti cosa avrebbe fatto a quel tipo se l’avesse avuto tra le mani.
Quella trasformazione in una specie di Hulk al pomodoro mi sconcertò un pochino, ma in un qualche modo mi sentii più protetta, al sicuro.
La sera successiva lo vidi, il tipo dell’autobus, e lo indicai al mio bisteccone.
“Eccolo, quello dell’autobus”
“Chi?”
“Quello che ha fatto lo scemo con noi, l’altro giorno!”
“Ma chi, quello lì?”
“Proprio lui!”
Il tizio non sembrava più pericoloso di un pinguino. Fatto sta che il mio divano ci pensò un po’su, poi fece un sorrisetto da essere superiore e concluse:
“Se non era perché ho la camicia nuova, lo facevo nero quel nanetto.”
Non che volessi scatenare una rissa, ma santo cielo un po’ di coerenza!

Dopo questo episodio capii come vanno le cose: ogni uomo ha un Rambetto dentro di sé, però in molti casi è come alcuni oggetti in una vetrina: solo per esposizione.


Tempo dopo, mi ritrovai ad assistere ad una scena anche peggiore, protagonisti sempre un ex-emplare ed una camicia. Ma l’antagonista del mio Rambo di turno non era un essere umano, bensì un cancello.
Eravamo in auto con me al volante. Passammo davanti ad una splendida villa disabitata, famosa per i giardini terrazzati che scendevano fin quasi a toccare il mare. La proprietà era cinta da mura piuttosto spesse. L’unico varco era un imponente cancello in ferro battuto.
“Quanto mi piacerebbe scavalcare quel cancello e vedere stì famosi giardini sul mare!”, dissi sognante.
Lui, fulgido e fiero, la buttò lì: “Io l’ho fatto.”
“No! Davvero? Hai scavalcato e sei entrato?”
“Sì, che ci vuole.”
“Ma dai! E com’è dentro?”
“Un paradiso. Sugli alberi si vedono anche gli scoiattoli”.
Inchiodai l’auto e feci un’inversione ad “U” da sequestro patente a vita, terrena e ultraterrena.
“Ma… ma che fai? Faremo tardi…”
“Voglio scavalcare quel cancello!”
Lui provò a dissuadermi, ma io ormai ero in preda alla sindrome di Candy Candy.
Saltai fuori dall’auto e mi appropinquai al mostro di ferro.
Era davvero maestoso, tutto fregi, volute e punte di lancia.
Un passato da piccola scavalcatrice folle mi aveva insegnato che i cancelli più sono lavorati e più sono accessibili. I peggiori sono quelli anonimi a sbarre verticali e parallele.
Un piede qua e una là, una mano lì e un'altra più su ed era fatta. In meno di un minuto ero dall’altra parte a correre lungo bellissimi viali alberati, con il naso in su a cercare gli scoiattoli.
Ad un certo punto mi fermai e mi resi conto che ero…sola!
Che fine aveva fatto quel contaballe!?
Dall’altra parte del cancello come un orango depresso allo zoo.
“Che fai ancora lì? Forza, vieni!”
“No, io l’ho già vista”.
“Avanti! Scavalca”
Più alzavo la mia voce, più si affievoliva la sua.
“Non fa niente, aspetto qui.”
“Ma che cavolo dici? Muoviti!”
“E’ che mi sembra un po’ alto…”
”Ma se l’hai già fatto, dai!”
“Sì, ma ero più allenato”
???
“Ma dai non vedi che io ci ho messo un attimo!”
Lui cominciò a sentire odore di figuraccia. Quindi sospirando si avvicinò alle sbarre.
Già dalla prima presa mi accorsi che quell’invertebrato non aveva mai scavalcato nemmeno il cancelletto di un pollaio.
Le dita erano molli e tremolanti.
“Ma mica c’avrai paura?”
“Macchè, ti ho detto che l’ho già fatto!”
“E allora vai!”
Con entrambe le mani disperatamente aggrappate alle sbarre, cominciò a pensare dove piazzare il piede destro. Niente da fare. Proprio non riusciva a sollevarsi. Decisi di aiutarlo, ma ormai nel mio videogioco mentale aveva già perso una vita. Non perché fosse legnoso come una sedia, poveraccio, ma perché a trent’anni suonati bisognerebbe smetterla con gli strambotti. Superflui, per di più.
“Avanti, metti il piede qui”.
Lui eseguì e si tirò su. Non era nemmeno a trenta centimetri da terra e tremava come un cellulare con vibrazione. Lo guidai in tutta la manovra finché non arrivò in cima e riuscì passare con una gamba dall’altra parte del cancello.
“E’ quasi fatta, su, adesso metti l’altro piede qui.”
Forse calcolai male le dimensioni perché questa volta il suo 44 si incastrò tra le due sbarre. Però a quel punto la distanza da terra era molto più alta e soprattutto il miserabile c’aveva una lancia di ferro che puntava minacciosamente verso le sue parti basse.
Provai a disincagliarlo, macchè. Quella dannata scarpa non voleva saperne di venir via.
Pareva proprio un manichino scagliato su quella cancellata da una tromba d’aria.
Cominciai a ridere prima in sordina, poi sempre più forte, finché dovetti sembrare una sadica pazza. Lui non aveva nemmeno la forza di dirlo, ma sono certa che in quel momento mi odiò con tutte le sue forze.
“Accidenti a te. E ora?”
“Uauauauauah!”
“Smettila di ridere cretina e aiutami!”
“Ma come hai fatto l’altra volta?”
“Quale volta?”
“Quella degli scoiattoli”
“Ma quali scoiattoli del cazzo… Fammi scendere di qui!!!”
“Aha, l’avevo capito che non era vero.”
“Fammi scendere ho detto!”
Mi guardai attorno e vidi un mucchio di vecchie tegole. Ne presi una e cominciai a dare colpi sulla scarpa per farla venir via.
“Ahia, ma sei pazza, mi fai male!”
Quella vocetta isterica ammazzò per sempre il Rambo sparafrottole di dieci minuti prima.
“Aò, sta scarpa non si muove, adesso te la slaccio. Cerca di sfilare il piede fuori”.
“Noooo!”
“Che no e no? Vuoi restare qui a vita?”
“Vabbè dai. Però mi sembra che ho il calzino un po’ bucato”
“Ma figurati!”
Figurati un corno. Hai perso un'altra vita, impedito.
Liberato dalla morsa, l’ex-emplare scavalcò verso l’esterno del cancello.
“Ma che fai? Rinunci?”
“Sì che rinuncio. Stavo per rimetterci gli zebedei per starti dietro!”
“Bah. Fai come vuoi, io faccio un giro. Aspettami in auto.”
“Dove vai?! Aiutami ad arrivare fin giù!”
“Ancora? Che pena che sei.”
“Vabbè vaffanculo, faccio da solo, tu vai a farti questo fottuto giro!”.
Quando tornai al cancello il campione non c’era più. In compenso c’era ancora la sua scarpa incastrata tra le sbarre e un brandello di camicia che pendeva tristemente da una punta.
Recuperai la scarpa ed entrai in auto.
Lui mi guardò truce e giuro che mi disse proprio così:
“Adesso a mia madre glie lo spieghi tu come mi si è strappata la camicia.”
Trent’anni suonati, signori.
Terza vita persa, game over.